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Sabato, 24 Settembre 2022 09:29

Stesso cuore, diversa analisi. Una reazione alla lettera aperta

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Come non comprendere la preoccupazione che anima la lettera aperta? Con ogni probabilità, avremmo messo l’accento sulle stesse cose sulle quali la lettera si concentra. Eppure, le argomentazioni portate, stimolano il desiderio di integrarle spostando il punto di vista.

Stesso cuore, diversa analisi

Spostiamo il punto di vista, o meglio, guardiamo e ragioniamo da un'altra angolazione. Di fronte alle questioni (e affermazioni) riportate nella lettera, la riprovazione, se non il disgusto, può ingenerare una sorta di timore a partire dal quale viene meno la gioia del sogno e allo slancio di chi preferisce lasciare che un’utopia gli illumini il cammino si sostituisce la paralisi dello spavento, lo sconcerto della paura. Così, invece di quel “sì”: armiamo i nostri argomenti e affermiamo le nostre idee, si finisce per impantanarsi nel “no”: fermi tutti, opponiamoci, resistiamo. Ma il difensivismo, come anche il calcio insegna, produce un pari o una sconfitta, e più raramente, a casualmente, una vittoria. Non è da escludere che quel “no” sia in effetti l’ultimo gradino che precede la disfatta. Ma che cosa succede quando prevale il timore anziché il sogno?

Cedere alla paura è inutile e dannoso. Un democratico, che storicamente e culturalmente è un progressista, ha in animo l’incedere delle sfide della storia –e por supuesto la loro accettazione. In tempo di elezioni, però, proprio perché tale, il democratico sa bene che la decisione della maggioranza rappresenta il dato evidente di una coscienza collettiva, la quale deve meritare rispetto e, di nuovo, accettazione. Comunque, mai negazione. Quest’ultimo punto attualizza una sfida ulteriore, una sfida essenziale perché il rifiuto di accettare il dato renderebbe non solo paradossale ma autocontraddittorio il gioco democratico. Si ricorderà che, fin dall’antichità, la democrazia si contrappose, per sua propria essenza, all’idea di un governo, sia esso assoluto o dei migliori (tirannidi o oligarchie), e ciò al punto di accettare che le decisioni prese potessero in principio essere sbagliate. L’importante era la partecipazione e il coinvolgimento del dèmos, del popolo. Va da sé che lo sfrangiamento della sinistra, fenomeno che meriterebbe una trattazione a sé, spesso rende palese l’autocontradditorietà della fondamentale impostazione democratica.

È noto che non si può combattere una guerra allo stesso modo di quella precedente. Da questo punto di vista risulta semplicistico agitare gli spettri del fascismo di un secolo fa. Purtroppo, tale semplificazione, comporta fuorvianza. Dato che il tema è vario e soprattutto composito, come garantirsi la reciproca comprensione? Il problema è il pensiero omologato o lo stato totalitario? È il reazionarismo, culturale prima che politico, o la mancanza della pluralità di voci e del dibattito?

A volte capita di provare un senso di isolamento e di incomprensione, nonché di sconcerto se si pensa al conservatorismo comunista, cui niente lo turba nel totalitarismo interno a uno stato d’altronde imperialista e nient’affatto internazionalista. È difficile ma non impossibile comprendere, ma non c’è verso di essere compresi. Si può avere in sommo spregio l’attuale nazi-comunismo di Putin, o quello, variamente declinato, della Cina?

Ma veniamo ai punti di cui alla lettera degli amici. Di fronte al dichiarato postfascismo la posizione antifascista è solo conflittuale. In breve, denota e sostanzia una contrapposizione irriducibile e, nei termini del dialogo interno alla comunità nazionale, produce soltanto inefficacia, ineffettività.

Per chiarire, la posizione postfascista è, banalmente, “dopo-fascista”. Non sta a significare un semplice superamento, o almeno non più di quanto ne rappresenti uno sviluppo, se non una riattualizzazione –con tutte le diversità del caso, ovviamente.

Il postfascismo è “post” in rapporto alla sua origine, lo è perché da lì viene, ed è non tanto miope quanto illogico non derivare la continuità con il suo precedente. Per fare un esempio distante e perciò neutrale, non diversamente vanno le cose, quando si parla di post-strutturalismo in relazione al periodo strutturalista che lo ha preceduto. La storia delle idee è lì e dà evidenza.

L’ineffettività di una contrapposizione irriducibile è un dato oggettivo e ha una sua costitutiva ragion d’essere. L’antifascismo si ispira agli ideali che hanno caratterizzato l’Italia risorgimentale e post-unitaria; da qui deriva anche il progetto, un “sogno partigiano”, lo potremmo definire, della costituzione repubblicana. Un sogno, quello di una repubblica, divenuto realtà. L’antifascismo è “anti” perché non può non opporsi a ciò che era stata e a ciò che aveva fatto la dittatura fascista.

Da questo punto di vista diviene perfettamente logico e comprensibile –cioè nessuno scandalo– il motivo per cui la Meloni non rilascia veraci dichiarazioni di antifascismo. Non può farlo. D’altra parte si è coerentemente definita postfascista. Che altro deve fare, un disegnino?

Torniamo allora al testo della lettera aperta e alla serie di questioni che vi si sollevano.

Possiamo iniziare con “Dio, Patria e Famiglia”, che non è, oggi, uno slogan politico –sebbene lo sia stato durante la dittatura. Piuttosto, si tratta di un richiamo ideale (un’utopia del contemporaneo, potremmo dire, per quanto anacronistica, come si vedrà) e in ogni caso di qualcosa di politicamente problematico. Infatti, tocca chiedersi, per esempio: quale dio in questa società? O addirittura quale dio, o meglio quali dei nella società di Cicerone? E anche: quale famiglia? Quella del matrimonio tradizionale, che vanta la quasi totalità degli strazi violenti di cui alla cronaca, spesso ai danni delle donne, ma non solo, e che è palesemente in crisi? E se questo modello è in crisi, come reagiamo, con una serrata dei ranghi ed escludendo tutti gli altri modelli che nel frattempo si sono venuti a diffondere?

La Natura procede per massimi e non per ottimi, produce un’abbondanza di possibilità (evolutive), così che le soluzioni più funzionali possano soppiantare quelle divenute, magari col tempo, meno “felici”. Difendere il modello tradizionale di famiglia anziché valorizzare quelli ad esso alternativi, che di fatto la società sta creando, è già un primo caso in cui i conservatori nostrani si costringono a negare l’evidenza –e con ogni probabilità sanno di farlo. Ma detto questo, combatteranno le unioni civili? Neanche per idea. A loro interessa definire il quadro ideale, il loro “sol dell’avvenir”.

Due. Il video del comizio tenuto dalla Meloni sul palco di Vox è estremamente significativo. A chi dice –su tutti la stessa Meloni– che i toni furono sbagliati, bisogna però opporre un dato incontestabile: quei toni rivelano un’autentica passione, un coinvolgimento totale dell’intera persona, di tutto il suo corpo, con le parole che proferiva. Era di un ardore autentico almeno quanto deliranti erano le parole pronunciate. La Meloni è radicalmente tutt’uno con quello che ha detto.

D’altronde, se guardiamo alle istanze di un certo conservatorismo, se non del conservatorismo in genere, non dovremmo trovare niente di cui stupirci. O forse crediamo che, da quel punto di vista, la società multiculturale, l’integrazione, la sostanziale uguaglianza tra individui (e la lista si farebbe assai lunga) non rappresenti una serie di posizioni anch’esse, mutando l’angolo prospettivo, altrettanto deliranti?

C’è poi la questione della fiamma nel simbolo. A parte che è falso dire che quella fiamma non ha niente a che fare con il fascismo. La fiamma rimanda al Movimento Sociale di Almirante, di quell’Almirante già caporedattore de “La difesa della razza” le cui abominevoli e deliranti parole (si veda Giorgio Almirante, "La difesa della razza", 5 maggio 1942) non risulta siano mai state dallo stesso smentite, o per meglio dire abiurate (se mai esistesse abiura, non sarebbe stato quello il caso?). O forse pensiamo che sul palco di Vox o in tante teste italiane (è trasparente che i social sono pieni di posizioni simili espresse da nostri concittadini, elettori) tali parole avrebbero destato “scandalo”?

Più di recente, di fronte alla “platea di banchieri e imprenditori di Cernobbio”, non ha mancato di palesarsi un aspetto neanche sottile di quest’ultimo razzismo. Perché, si chiede la Meloni, invece di “questa gente” che viene dall’Africa, non facciamo entrare in Italia venezuelani, che almeno sono latini, cristiani ecc.? Il ragionamento è chiaro e vi soggiace una sola parola: deportazione. Non differente, a ben vedere, da quella con cui i negazionisti della Shoà si arrampicano (scavandosi la fossa) per giustificare il fatto che Hitler fu costretto allo sterminio dal momento che non poté “migrare”, cioè deportare tutti gli ebrei dell’Europa o del mondo nell’isola di Madagascar.

Infine, non è oggettivamente praticabile, né tantomeno realizzabile, l’auspicio di «crescere nuove generazioni di italiani sani e determinati» ricorrendo all’incremento dello sport, perché questo non serve a niente per combattere le “devianze giovanili”, molte delle quali sono rubricate, almeno in ambito scientifico, nella sfera delle patologie. Da decenni, il vero punto che riguarda le giovani e future generazioni non riguarda, ahinoi, lo sport bensì la ricerca. Scientifica (ma no?). Patria e cultura, nonché lingua, che nei secoli si è distinta per il vedere emergere di menti brillanti, quella italiana rivela un deficit spaventoso negli ambiti della formazione e della ricerca. Umiliante e ingiusta per chi vi abita, una tale mancanza è soprattutto gravemente frustrante per le menti cui “tradizionalmente” il nostro Paese dà i natali. E poi parlano di patriottismo…

È davvero difficile credere che gli italiani, che con la pandemia hanno mostrato senso di patria, di sacrificio e di solidarietà, vogliano una roba del genere. Proprio per questo, però, esiste la propaganda, arte o per meglio scienza del raggiro.

 

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