Fabio Dei - Multiculturalismo senza culture? (Multiculturalism without cultures?)

Multiculturalismo è al tempo stesso una nozione descrittiva della convivenza di gruppi di diversa provenzienza etnica, e un modello normativo volto a promuovere forme di integrazione e/o politiche di riconoscimento culturale.
In entrambe queste accezioni, si tratta di un concetto sostenuto con forza dall’antropologia classica, in opposizione a modalità etnocentriche di comprensione dell’alterità e a politiche razziste o neorazziste fondate sul pregiudizio e sulla xenofobia.
Tuttavia, il dibattito degli ultimi anni (in antropologia e in discipline come i postcolonial studies e gli ethnic and racial studies) ha posto radicalmente in discussione l’idea stessa di multuculturalismo. Questa risulterebbe troppo strettamente legata a un concetto reificato ed essenzialista di “cultura” – il quale, a sua volta, appare ad alcuni come un correlato ideologico delle pratiche di dominio coloniale e post-coloniale.
Se è epistemologicamente e politicamente corretto parlare di culture come entità prepolitiche, lo stesso concetto di multiculturalismo risulta inservibile, nonché equivoco nelle sue implicazioni pratiche e di politica sociale.
I critici più radicali vedono in esso il fondamento di una politica di gestione paternalista, da parte del Nord del mondo, dei flussi migratori e delle sperequazioni economiche e sociali che caratterizzano il processo di globalizzazione: in definitiva, una strategia di apparente (e spesso estetizzante) accoglimento delle differenze che mira a preservare inalterati i reali rapporti di potere.
In questo intervento, vorrei difendere il concetto di multiculturalismo da alcune di tali critiche, sostenendo in particolare che:
a) le differenze culturali (e il senso di appartenenza e identità che ed esse si accompagna) non possono esser considerate come puri riflessi ideologici dei rapporti di potere);
b) il postcolonialismo e le decostruzioni radicali del concetto di cultura presuppongono un modello di agente razionale astratto e universale, sostanzialmente pre-antropologico (incompatibile con una “politica del riconoscimento” e con implicazioni etico-politiche assai ambigue).
L’approccio antropologico non può fare a meno di considerare la differenza come costitutiva della soggettività umana: mai data ed assoluta, certo, ma neppure integralmente dissolvibile in un’analisi dei “reali” rapporti politico-economici (si veda ad esempio il problema della comprensione delle differenze religiose nel mondo contemporaneo). Su questa base, è forse possibile recuperare alcuni aspetti del pur abusato concetto di società multiculturale come modello descrittivo e normativo di convivenza civile.