Pluralismo culturale e questione indigena in Messico.
di Enzo Segre Malagoli
Riprendo la tesi principale di Ernest Gellner circa la relazione tra divisione culturale o etnica del lavoro e nascimento dello stato nazione e della cultura nazionale. Come si sa Gellner sostiene sulla base di studi storici provenienti principalmente dal Regno Unito, dalla Francia e dall’Olanda, paesi tipici delle origini del capitalismo e dell’industrializzazione, che a partire da un certo momento dello sviluppo della manifattura parallelo ad un connesso crescimento della società civile di quei paesi, le culture locali, spesso condizionate da stratificazioni etniche e linguistiche, si trasformarono in un ostacolo per la produzione. Le differenze culturali e linguistiche dei lavoratori impedivano una comunicazione fluida durante il processo produttivo, intralciato da una mancanza di omogeneità tra loro. A questo si aggiunga la questione dei ruoli ascritti con le loro regole endogamiche, e la divisione sociale del lavoro che tali ruoli comportano. Per rispondere alle esigenze della produzione industriale fin dagli inizi, sorge il moderno stato-nazione che deve garantire le condizioni ottimali della stessa produzione, un’autentica rivoluzione che fonda la cultura nazionale e con essa la conseguente omogenizzazione dei cittadini dello stato-nazione. Questa omogenizzazione risponde solo alle esigenze della produzione che, paradossalmente, implicano una profonda stratificazione economica, sociale e culturale tra i cittadini di uno stesso stato-nazione. D’altronde questa omogenizzazione assieme a processi acculturativi ha dato luogo a fenomeni contracculturativi, a forme di resistenza culturale da parte delle culture locali ed a reinterpretazioni nello scontro tra culture egemoniche e culture subalterne dentro di uno stesso stato-nazione, o, più in generale tra paesi metropolitani e paesi periferici.
Ma voglio fin da ora risaltare un aspetto importante della omogenizzazione culturale e del superamento della divisione etnica del lavoro. Ed è quello connesso alla liberazione dai ruoli ascritti, una vera emancipazione portata dalla modernità strettamente vincolata al diritto positivo dello stato-nazione.
In questo quadro si apre una contraddizione tra modernità e tradizione, tra diritti astratti ed universali propri della modernità e configurazioni culturali specifiche concrete col loro diritto consuetudinario derivato dalla tradizione. Ci si potrebbe domandare: come mettere insieme l’identità culturale concreta e l’omogenizzazione culturale?
Riprendo questi temi da un altro punto di vista. Il processo di formazione del moderno stato nazione è condizionato dalla rivoluzione scientifica che a sua volta lo condiziona. Lo stato-nazione costituzionale fondato sulla tripartizione dei poteri e sul suffragio elettorale nasce dall’estensione del metodo scientifico prima alla natura e poi alla filosofia. Grosso modo è questa l’origine dell’Illuminismo come con la potenza sintetica della poesia lo definì splendidamente Alexander Pope: “Dio disse: Newton. E fu la luce”.
Se è possibile scoprire le leggi della natura, del cosmo, perché non dovrebbe esserlo per le società umane? E se questo è possibile, perché la riflessione sulle società umane non potrebbe determinare il futuro, alimentare il progetto politico?
La costituzione fonda lo stato-nazione moderno come società. La costituzione indica i fini e le regole di questa società in cui si assiste alla subalternità delle culture locali rispetto alla cultura nazionale. Come non ricordare il Renan che scrive sulla necessità dell’oblio delle culture locali, delle culture del campanile per entrare nella cultura nazionale?
Ma la rivoluzione scientifica applicata alla filosofia e da lì la conseguente nascita delle scienze sociali e umane costituisce l’alimento delle forze politiche, specie quando per un processo di mitificazione relazionato alla stratificazione e al conflitto sociale trasformano i loro prodotti in ideologie politiche.
Questo schema di Gellner per quanto molto utile credo che abbia bisogno di revisione quando si estenda dai paesi metropolitani ai paesi periferici.
Senza entrare nel merito delle ragioni storiche che portarono all’Indipendenza di Messico, penso che il modello gellneriano circa il sorgimento dello stato-nazione non trovi la sua motivazione nella sfera della produzione manifatturiera e nei limiti della divisione culturale del lavoro, ma la trovi in ragioni imposte dalla necessità dell’indipendenza politica nel quadro di una società civile molto debole, perfino da costruire.
Lo stato-nazione sorto nei paesi metropolitani d’Europa e successivamente negli Stati Uniti d’America, vettore fondamentale dell’espansione dell’Occidente con le sue colonie ed i suoi imperi, per un gioco della storia diviene lo strumento di decolonizzazione adottato dai paesi periferici una volta colonizzati. Insomma esigenze di indipendenza politica, prima ancora che produttivistiche starebbero alla base dello stato-nazione messicano, come di molti paesi di quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. La formazione dello stato-nazione diviene la condizione della produzione e non sono le condizioni della produzione che impongono lo stato-nazione.
Gli Stati Uniti di Messico precedono la cultura nazionale messicana e la sua economia. Il pluralismo etnico e culturale, caratteristico di quella forma politica imperiale che fu la Nuova Spagna, caratterizza il primo secolo di Indipendenza. Culture locali dei diversi gruppi etnici caratterizzate da un’infinità di lingue diverse, sincretismi culturali dove a volte era predominante la componente indigena ed a volte quella spagnola. Forme di cattolicesimo popolare, ma non solo popolare, plasmate dalla magia e dalla cerimonialità, lontane dalla religiosità moderna.
Inizia il processo di formazione della cultura nazionale e dell’economia nazionale tra modelli di sviluppo industriali e fisiocratici nello scontro dei conservatori e dei liberali.
Lo stato-nazione impone paradigmaticamente la sua cultura nazionale, la sua economia, il suo diritto positivo post-napoleonico.
Potremmo dire che per un processo di riarticolazione sociale tra i vari strati della popolazione sostanzialmente asimmetrico, quei gruppi umani che rimasero periferici vennero considerati come primitivi e inadatti al progresso.
È questo giudizio di valore intorno ai popoli indigeni quello che li etnicizza sul piano politico e culturale. Infatti l'etnico non é, evoluzionisticamente, una forma elementare di organizzazione sociale, ma un gruppo umano che persevera, spesso al di là della sua propria volontà, nella alterità viene etnicizzato dallo stato-nazione, che è essenzialmente monoculturale, non solo nelle sue forme autoritarie, ma anche in quelle liberali. Mentre l’impero è una forma politica, che almeno in passato, ha tollerato maggiormente il pluralismo culturale e perfino lo ha propiziato. La modernità si impone con la perentorietà della moda nella prospettiva teleologica del progresso.
Credo si debbano distinguere due tappe rispetto alla questione indigena in Messico: quella successiva alla Indipendenza e quella successiva alla Rivoluzione, per poi arrivare ad una terza, quella successiva alla globalizzazione.
Nel pensiero liberale di Benito Juárez, per altro indio zapoteco, non è presente una valorizzazione delle culture indigene. Sulla base di una riflessione illuministica si considerano usi e costumi come superstizioni che costituiscono un ostacolo per il progresso nazionale.
Tali usi e superstizioni trovano nella comunità il loro spazio con la sua organizzazione sociale e la sua particolare forma di possesso della terra. Si tratta di dissolvere queste forme tradizionali di proprietà della terra per immetterle, libere da vincoli giuridici anacronici, nella economia di mercato nascente. La dissoluzione della comunità avrebbe comportato l’integrazione degli indios nelle classi popolari nazionali in un quadro di rigide stratificazioni di classe.
Successivamente, per Porfirio Diaz ed i suoi científicos il problema è il progresso nazionale con ordine e la questione indigena è solo una questione di folclore persistente e di mitificazione del passato indigeno.
La questione indigena rimane irrisolta dentro di uno stato nazione elitario, che rappresenta solo una piccola parte della nazione messicana. Il problema sociale e quello indigeno restano ed esplodono.
La Rivoluzione del 1910 nasce sulla base di rivendicazioni sociali ed economiche anche se non va sottovalutata una componente culturale che include una visione del mondo e nostalgia per forme di vita tradizionale, specialmente agricole. Ma questa componente culturale attua sotto la veste di richieste rivoluzionarie sociali ed economiche, od attua per alimentare la nascente cultura nazionale e la nuova identità nazionale post-rivoluzionaria. Sostanzialmente lo stato-nazione post-rivoluzionario sorge dall’esigenza di completare il processo dell’Indipendenza che aveva lasciato fuori di esso una gran parte della popolazione indigena e meticcia.
Si recupera il passato per costruire una identità nazionale meticcia. Questa identità rimette alle radici indigene, le enfatizza. Magnifica la storia degli indios passati ma vuole entrare nella modernità, è sedotta dall’Occidente, nell’orbita del quale è entrata fin dalla Conquista.
Voglio brevemente ricordare due punti dell’epoca dello stato nazione postrivoluzionario: il dibattito sulla natura delle culture indie e la politica indigenista.
É curioso osservare una convergenza di opinione tra l’interpretazione di tipo marxista e quella del nazionalismo rivoluzionario. Per entrambe le culture indigene, in base ad una analisi della loro letteratura orale, miti, racconti, sono sostanzialmente culture della colonia, da esse derivate, spesso residui della cultura contadina spagnola del XVI secolo, con pochi elementi preispanici, per di più decontestualizzati e ricontestualizzati in epoca coloniale. Perciò la loro difesa si volgeva assurda: era difendere un prodotto del colonialismo.
Per i marxisti si trattava, in linea sostanzialmente con Benito Juárez, di dissolvere le forme economiche pre-capitaliste indigene e di integrare gli indios alle classi moderne contadine e operaie, ed assieme a loro lottare per l’emancipazione, ma ormai non essendo più indios.
Per i nazionalisti rivoluzionari si trattava di integrarli alla economia ed alla cultura nazionale permettendo la sopravvivenza di quei tratti socioculturali che non fossero in fragrante contrasto con le esigenze della modernità.
La Secreteria de Educación Publíca ed in minor grado la Secreteria de Defensa Nacional sono stati i principali strumenti per l’omogenizzazione culturale nazionale. Al principio del secolo XIX la stragrande maggioranza degli abitanti di Messico, non dico messicani, parlava esclusivamente lingue indigene. In epoca post-rivoluzionaria questo numero si è ridotto drasticamente.
Considerando il criterio linguistico come il più adatto per definire chi sia indio, oggi in Messico solo il 10 per cento della popolazione può essere considerato tale, anche se il numero di indios in assoluto è cresciuto, e di questi solo una percentuale minima è monolingue indigena. Il ruolo dei maestri normali e bilingui è stato fondamentale per “forjar patria”.
Sul piano politico chi è rimasto indio ha delegato la sua rappresentanza politica ai partiti politici nazionali ed in speciale modo al Partido Revolucionario Institucional, questo almeno fino agli anni ottanta.
É stata la Rivoluzione del 1910 quella che ha formato la stato-nazione messicano, molto più che l’Indipendenza: milioni e milioni di indios si sono disindianizzati omogeneizzandosi alla cultura nazionale, mescolandosi coi contadini, con cui la frontiera è sempre stata molto labile, e con la classe operaia e infine urbanizzandosi ed entrando nell’economia dei servizi. Oggi probabilmente la maggior parte degli indios vive nelle città.
La politica indigenista dello stato-nazione post-rivoluzionario è stata più assimilazionista che integrazionista. La monocultura nazionale è stata il progetto dominante.
La terza tappa. Indico subito alcuni elementi fondamentali per inquadrare la questione indígena ed il pluralismo culturale nell’attualità. Alcuni di questi elementi sono specificamente messicani, ma altri, forse la parte preponderante, sono più generali. Crisi delle ideologie politiche e dei partiti di massa, con particolare riferimento allo slittamento progressivo delle scienze sociali dall’istanza nomotetica a quella idiografica; eclissi del marxismo. L’indebolimento della capacità di rappresentatività dei partiti politici, desideologizzazione e conseguente scelta tecnocratica. La globalizzazione economica e culturale in un quadro politico imperiale.
Lo stato-nazione messicano è sottoposto a due forze contrarie ma sincroniche, in definitiva armoniche tra loro: quella centrifuga che proviene dalla sempre maggiore richiesta di autonomie locali, specialmente a livello di municipalità da parte delle popolazioni indigene ma non soltanto, cioè come esigenza più ampia di molte parti della società messicana. Quella centripeta che viene dalla politica dei blocchi, ed in specifico dal Trattato di Libero Commercio tra Messico, Canada e Stati Uniti.
Le popolazioni indigene di Messico a partire dagli anni ottanta si sono venute sempre più autonomizzando rispetto ai partiti politici, incominciando dal PRI. Sebbene il recente nato partito, suppostamente di sinistra, PRD abbia in ripetute occasioni preteso la rappresentatività politica di queste popolazioni, esse non hanno mai acceduto a questa richiesta ed hanno difeso decisamente la loro indipendenza. In questa svolta i maestri bilingui hanno avuto un ruolo importante. Il sollevamento del 1994 ed il movimento che lo ha seguito,originariamente di impronta socialista e solo successivamente di rivendicazione etnica , risulta particolarmente significativo perché evidenzia il nesso storico tra questione sociale e questione etnica, tra pluralismo culturale e strategie per entrare nella modernità.
L’autonomia dai partititi politici da parte indiana deriva da una svolta storica nell’autocoscienza e perfino direi nell’autostima delle popolazioni indigene. Fin dalla Conquista stigmatizzate e sottoposte a discriminazione, in questi venti anni hanno trasformato la stigmatizzazione e l’etnicizzazione in un veicolo di partecipazione politica, L’identità etnica con la sua ideologia e con la sua organizzazione socio-economica, vale a dire molto spesso la comunità, si è trasformata in un fattore di azione politica. Si tratta di comunità che possono coincidere con municipi come nel caso dei territori controllati dal neozapatismo. O perfino essere comunità virtuali. Ma questo concetto di comunità, credo sia differente da quello tradizionale, come è stato usato dagli antropologi in Messico. Non si tratta di elevare a livello di comunità insediamenti umani stratificati e conflittivi, ma di trasformare la comunità in un obbiettivo, in una proposta politica. In questo quadro credo che i movimenti basati sull’identità etnica potrebbero anche essere visti nell’ambito di una sociologíe de la rúse, come strumenti per entrare nella modernità, per trovare un’integrazione nazionale e sovranazionale, come nel caso dell’emigrazione indigena negli Stati Uniti.
La crisi del campo ha spinto gli indios nelle città dove ora vivono maggioritariamente. Si assiste ad un progressivo allontanamento della questione indigena dall’ottica dell’agrarismo, come politica nata dallo zapatismo della Rivoluzione. O forse si potrebbe dire che l’ottica da parte dei dirigenti indigeni non è più o non dovrebbe essere più quella agrarista ma, se si vuole usare una terminologia classica, quella della questione agraria, della relazione città-campo, agricoltura e produzione, dei processi di emigrazione in epoca di globalizzazione.
L’identità culturale come veicolo di partecipazione politica nell’attualità trascende la questione indigena per vincolarsi con la più ampia articolazione dei problemi contemporanei in un mondo postmoderno.
Nel 2002 il governo del Presidente Fox riconobbe ufficialmente la natura pluriculturale dello stato-nazione messicano. Un evento di tanta importanza non trovò però molta eco, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica era rivolta al TLC ed al nuovo assetto politico pluripartitista. Questo importante riconoscimento ricade però dentro la logica della politica neo-liberista.
Il pluralismo culturale in queste condizioni non è un diritto garantito dallo stato-nazione con i conseguenti oneri economici ma è una possibilità che può divenire concreta soltanto se i gruppi indigeni, o chi altri ne abbia necessità, possano sul piano concreto attuarlo con le proprie risorse.