Akronos, senza tempo, è la firma d’arte di Anita Mollo e Angela Longares che a quattro mani portano avanti una ricerca artistica dal 1982 a Firenze; ricerca di cui oggi espongono gli esiti recenti in una felice ambientazione, di sincera intensità poetica, allestita per altro con efficace sapienza tecnica dall’architetto Massimo Petri, in un luogo che non potrebbe meglio corrispondervi, meglio entrarvi in consonanza più di questo dove sono raccolti e conservati libri. Il visitatore accorto avrà, sicuramente percepito la perfetta simmetria, del luogo rispetto ai particolari spazi aperti alla contemplazione offerti dalle “opere Akronos - scrittura, su pittura”, sculture - libri in terracotta, ivi presenti come oscuro contrappunto d’una luminosa assenza.
Analoga a quella che dilaga per entro i limiti di un libro, luogo dove sono raccolti e conservati segni, lettere, parole. Assenza di tempo prima d’ogni altra, a-kronos appunto, ma di un tempo (quello di cui ora si dice assente) che è il tempo consumato nel dispendio dei segnali sonori con i quali si reitera ogni giorno, l’umano commercio dei significanti. Nelle opere di Anita Mollo e Angela Longares s’avverte uno spirar del tempo fuori della cornice temporale, una rimemorazione, Mnêmosynê che dispensa ai suoi eletti una onniscienza” di tipo divinatorio la quale invece di guardare al futuro, vede il passato, il “tempo antico”, col suo contenuto e con le sue qualità o, ancora al di là, l’età primordiale, il tempo originario.
“Akronos usa il fuoco, che di solito distrugge la carta, per costruire elementi essenziali al richiamo della prima scrittura dell’uomo, quella cuneiforme su tavolette d’argilla”. Archiscrittura perduta in un tempo fuori del tempo in cui, insieme, scrittura e pittura, entrambe sono restituite alla cenere del silenzio.
“Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio”.
Arcana fuga di un’eco dall’interrogazione la cui voce “come la parola sacra, la scrittura proviene dall’ignoto, è senza autore, senza origine”, dice Blanchot come la voce d’una quercia; ciò che colpisce e che sembra strano “nella scrittura e nella pittura, è il silenzio, il silenzio maestoso, il mutismo in se stesso disumano, che fa correre nell’arte il brivido di quelle forze sacre, che, attraverso l’orrore ed il terrore spalancano all’uomo regioni sconosciute” (M. Blanchot, La bestia di Lascaux).
Il privilegio conferito alla phoné ha instaurato il logocentrismo e reso la scrittura luogo d’origine del senso in quanto significato, perciò comunicabile, trasmissibile, tramandabile e dunque istitutivo di una tradizione; ecco perché a guardare le tavolette, i pannelli, le tele e tutte quante le opere plastico-pittoriche quivi installate come fascinose insegne avvolgenti segni dipinti e incisi di una arcaica scrittura, esse stesse avvolte dalla scrittura raccolta nelle anse di una biblioteca, si prova un senso di vertigine pari, almeno alla vertigine che promana dall’astanza, di caratteri cuneiformi ormai privi di arché, non più suono, né voce, né parola.
Caratteri divenuti scrittura su pittura, particole e segnacoli del silenzio anteriore al principio da cui ha avuto origine il tempo degli uomini, lo sguardo risale ad essi correndo come lungo il fiume interminabile di Borges, che passa e s’arresta ed è il cristallo di uno stesso Eraclito incostante.
Assistiamo attimo per attimo alla genesi eterna di un tempo da cui sono assenti gli uomini, nelle tavolette del Menabò di Anita ed Angela assistiamo anzi alla muta rinascita del tempo degli eroi. Un tempo - ha scritto in proposito il prof. A. Spini dell’Università di Firenze - in cui la parola serviva a raccontare e raccontarci, o a trasformarci in animali simbolici cioè in persone che per dare senso e significato al mondo avevano bisogno di inventarlo.
È il regno della poesia. Oggi la parola torna a riavvolgersi nel silenzio, divenuta Kallópisma órphnes, ornamento dell’oscurità, ma non è più il regno della poesia; consapevolezza che Michelstaedter denuncia apertamente in diverse pagine della sua tesi, specie nelle ultime, allorché osserva che in prospettiva prossima la lingua è destinata al silenzio.
“Prima di giungere al regno del silenzio ogni parola sarà un Kallópisma órphnes: un’apparenza assoluta, un’efficacia immediata d’una parola che non avrà più contenuto che il minimo oscuro istinto di vita”, ogni luce di poesia (e di ragione) sarà spenta. È il regno della retorica, nel quale la parola è appunto un “ornamento dell’oscurità, simbolo di uniformità e di livellamento generale; orribile abisso dell'inautentico in cui gli uomini senza avvedersene, o forse con colpevole incoscienza, mostrano di voler precipitare. Così scrivono le due Akronos nel loro personale Manifesto: “si è sollevato in Occidente, spinto da chissà quale demone sulfureo, un terribile uragano di sovversione che tenta di sconvolgere la nostra gerarchia di valori, di scartare tutto quel che di libero, disinteressato, aperto al mondo era al primo posto per sostituirlo con la sola motivazione brutale, aritmetica ed inumana, del profitto”. Il vento della sovversione capitalistica ha finito per distruggere la civiltà stessa che l’ha generato, ogni aspetto dell’attività produttiva, economica e materiale o anche psicologica, simile ad una macchina impazzita, funziona soltanto secondo artifici e meccanismi che ormai girano a vuoto, come gli artifici e i meccanismi a vuoto di una lingua non più creativa e, al massimo, funzionale ai bisogni pratici dell’uomo e della società.
La profezia di Michelstaedter si attua alla fine nella mutazione in corso dell’era del pixel e delle tastiere dei computers. “Tutte le parole saranno termini tecnici quando l’oscurità sarà per tutti allo stesso modo velata, essendo gli uomini tutti allo stesso modo addomesticati. Le parole si riferiranno a relazioni per tutti allo stesso modo determinate (…). Gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera”. (Corsivo nostro). Agli svagati flâneurs che avranno passeggiato tra i viali, i sentieri e gli anfratti del versicolore giardino di lettere oscure che è stata l’ambientazione di questa “scrittura su pittura” delle Akronos nella Biblioteca Civica del MART di Rovereto, non sarà passata certamente inavvertita l’osservazione della coesistenza di segni arcaici con segni cibernetici, l’incisione di misteriosi segni della scrittura di antiche civiltà del Mediterraneo con le tracce della nostra memoria futura.
Lettere oscure, appunto, per oscurità da cui nasce una lingua o in cui muore, per oscurità del silenzio dove abitano scrittura e pittura con- fuse in quell’unica lingua di cui non una sola parola ci è nota, dice Hugo Hofmannsthal, “una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto”.