Sabato, 01 Agosto 2009 15:01

Summer School 2009. Prolegomeni, di Arnaldo Nesti

Scritto da  Gerardo

XVI International Summer School on Religions:
Il colore della pelle di Dio. Forme del razzismo contemporaneo
San Gimignano (Siena), 28 agosto – 1° settembre 2009
Nel seguito puoi leggere l'introduzione del direttore, Arnaldo Nesti.
Se vuoi, puoi sia leggere che scaricare la versione PDF del programma completo.



Prolegomeni

Signore, signori, amici,

Quest’anno la Summer School si pone un tema che non è solo destinato a farci riflettere come studiosi. Specialmente quest’anno è connessa alla nostra condizione di cittadini e quindi implica forti opzioni e ci porta a non tacere. Per diversi aspetti siamo spinti verso il dovere di prendere la parola, rivolgendo anche un appello al garante della Costituzione, e per chiedergli di non promulgare il Disegno di legge N. 733-B, approvato dal Senato della Repubblica nella seduta n. 232 del 2 luglio scorso, recante il titolo "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica". La decisione del governo italiano di respingere i disperati che fuggono dalla guerra, dalla tortura, dalla fame e della miseria ci offende, ci ferisce. Non parliamo di immigrati ma di persone donne, uomini, bambini. Ci chiedono asilo e protezione e li respingiamo senza pietà. Come italiani proviamo vergogna. Nessun governo si può permettere di venire meno ai doveri di solidarietà, di accoglienza e di difesa dei diritti umani che sono inscritti nella nostra Carta Costituzionale e nelle norme internazionali dei diritti umani. Un governo senza umanità minaccia di toglierci la nostra umanità. Senza umanità saremo più poveri, insicuri e indifesi. Solo riconoscendo agli altri i diritti che vogliamo siano riconosciuti a noi, riusciremo a vivere meglio. Per questo mentre alcuni costruiscono muri i e scavano fossati tra di noi e il resto del mondo, noi ci impegniamo ad aprire le nostre città.

Secondo quanto eminenti giuristi e costituzionalisti hanno già avuto modo di argomentare, la norma che punisce come reato l'ingresso e il soggiorno "irregolare" dello straniero nel territorio dello Stato è una norma che criminalizza mere condizioni personali e presenta chiari e svariati aspetti di illegittimità costituzionale.
Tali sanzioni penali, oltre che prive di fondamenti giustificativi, sono altresì irragionevoli sia nella forma che nella sostanza, e controproducenti sul piano effettuale e dell'autentica legalità.
A proposito della condizione di irregolarità, si è già pronunciata anche la Corte costituzionale (sent. 78 del 2007), escludendo che la condizione di mera irregolarità dello straniero sia sintomatica della sua pericolosità sociale.

L'attuale congiuntura planetaria ci dovrebbe spingere a mettere più decisamente in discussione la legittimità delle nostre frontiere, e di un'idea di Patria che escluda e marginalizzi. Non solo: sono convinto che
questa congiuntura di crisi possa essere occasione per ripensare i modelli e paradigmi stessi dell'economia, per ripensare drasticamente la nostra "cooperazione internazionale" e per mettere in discussione anche i nostri privilegi e la nostra ingiusta ricchezza. Si chiedeva recentemente Eric Hobsbawm: "Il socialismo ha fallito. Il capitalismo è in bancarotta. Che cosa succederò adesso?"

È paradossale che possiamo ritenere ingenuamente (ed erroneamente) che il principio di giustizia possa oggi esprimersi nel difendere privilegi e ricchezza, nel respingere indiscriminatamente i migranti, nel coltivare
un'idea della sicurezza centrata sull'egoismo e la chiusura. D'altra parte, mentre nel nostro paese vengono partoriti disegni di legge di questo registro e tono, sul piano delle grandi organizzazioni internazionali (cui
dovremmo peraltro ispirarci) gli studi sono orientati chiaramente nel considerare la possibilità di riconoscere le migrazioni "senza frontiere", sostenendo la libera circolazione delle persone. A proposito del principio
di giustizia, a mio parere occorre riconoscere piuttosto, seguendo Simone Weil, che il principio di giustizia più elevato si sostanzia nel sentire l'urlo silenzioso di chi chiede "Perché mi fai male?". E nell'operare
perché la distruttività e la violenza, in ogni sua forma, venga ridotta.

È peraltro drammatico che rispunti all’inizio del secolo il razzismo. È difficile trovare una descrizione del razzismo migliore di quella che si trova in "Sommersi e i salvati" di Primo Levi.
Lì, infatti, il razzismo è associato al rapporto fra potere e identità collettiva. Accade che gli ultimi arrivati nella sfera dei privilegiati diventino i difensori più crudeli e spietati di quella stessa sfera.
Sentirsi dentro un’identità perché contro gli altri, contro quelli che stanno fuori.
Come è noto nell’analisi del lager Primo Levi racconta dei kapò i quali sono ebrei e sanno di dover morire, eppure si prestano a fare gli aguzzini degli ebrei prigionieri. Dove possono essere collocati i Kapò? La loro figura ci suggerisce che lo stesso razzismo rappresenta un aspetto particolare e tragico delle relazioni di potere divenute, per dirla con Foucault, stati di dominio. Non è il razzismo che spiega il dominio, ma è il dominio che spiega il razzismo. Quando il proprio bisogno di riconoscimento si traduce nell’ottenimento di un privilegio, esso può portare a non riconoscere l’altro. Il problema è sempre quello di un potere che si trasforma in dominio e che ottiene un consenso di cui potersi alimentare. Il rischio dell’oblio è altissimo, ma è altrettanto alto il ricorso al passato manipolando l’identità collettiva.

Molte sono le sfide che ci stanno davanti, nello scenario mondiale. Non ci sono zone franche. Non posso non
ricordare le parole di Lorenzo Milani e della Scuola di Barbiana, che, a proposito della stessa questione della "innaturalità" della condizione di straniero, scrissero: "Se voi avete il diritto di dividere il mondo in
italiani e stranieri allora vi dirò che nel vostro senso io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri
i miei stranieri".

Ritengo utile evocare una pagina liberamente tratta da "Moha il folle Moha il saggio" e da
"Le pareti della solitudine" di Tahar Ben Jelloun


“… è la vipera che torce il collo alla pietà"

Guarda questi giovani, usciti dalle pietre:

I miei figli nascono con la morte inchiodata in fronte.
E, in più, con il sorriso dei bambini.
Nessuna innocenza. …
Se voi incontrate questi miei figli, non fuggite.
Lasciate che vi spoglino un poco.
È una causa giusta.

Li riconoscerete: non sono proprio puliti.
Non sono bianchi.
Indossano abiti altrui.
Abiti troppo larghi e troppo lunghi.
Avvicinatevi, e lasciateli fare.
Allora meriterete la mia benedizione
e, forse, un pezzetto del mio albero,
un po' di paradiso.

Sono venuto nel tuo paese con il cuore in mano,
espulso dal mio.

La mia terra, come la mia memoria,
è vissuta senza catasto.
Nubile e tenera.
Espropriati della nostra terra
ci volevano spossessare anche del nostro corpo,
della nostra vita.
Ci fu la guerra.
La guerra.

Siamo arrivati qui a infornate,
con un canto di follia nella testa,
una canzone trattenuta
e già la nostalgia e i frammenti del sogno.
Vivere con la testa nascosta nel corpo.
Dura l'esclusione.
Rara la parola.
Rara la mano tesa.

Quello che resta di noi è questo corpo spezzato,
che non parla di sventura
ma che guarda il cielo
e si ricorda delle foreste decimate.

Sono nato vicino ad un ruscello,
al corso d'acqua ereditato.
Ben presto torbido di terra grigia.
Giocavo con le pietre.
Della città non conoscevo che il rumore.
Vengo da una terra dove crescono con il sole arbusti selvatici.

Mi sono trascinato nella polvere e nell'illusione.
Avevo le ginocchia insanguinate.
Camminavo per le strade e per le piazze
alla ricerca dell'albero e del ruscello.
La mia vita fu dapprima un terreno abbandonato
dove si ammucchiavano i rifiuti
e la disperazione di uomini e ragazzi
che non sapevano dove andare.
Non capivo niente di quanto accadeva.
Passavo.

Poi venne il richiamo della fortuna e dell'esilio.
Dovetti correre un bel po' prima di poter partire.
Ho firmato dappertutto.
Lasciavo le mie impronte digitali e un po' del mio sangue.
Tutto era raccolto dalla burocrazia.
Dalla mia dimora (inesistente ma immaginaria) all'esilio,
ne sono passate di cose, e anche un toro.
L'esilio.
Che sconforto con i capelli lunghi e grandi occhi neri!
Ho camminato lungo quegli occhi;
ho vissuto sul bordo,
tra le ciglia e la lacrima.
Ho fatto dei viaggi negli sguardi vuoti
(svuotati)
e mi sono fermato il giorno in cui
l'immaginario prese fuoco.
La fortuna,
bella storia!

Oggi un corpo umano
prenderà la strada del ritorno.
Viaggia in una scatola metallica.
C'è ancora un avanzo di vita da raccogliere,
da impacchettare in un foglio di alluminio,
da legare con lo spago e rispedire al paese.
Non dimenticare l'etichetta e il profumo.

E coloro che,
privati come me
della parola e dell'anima,
si staccano dalla vita
affondano...

L'evidenza è la vipera che torce il collo alla pietà...

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