Trecento film tra corti, medi e lungometraggi nei formati più disparati. Certo siamo lontani dai 1000 e passa film di Cannes, ma si sa, da un punto di vista quantitativo quello francese è un altro pianeta.
Comunque, dell’immenso capitale visivo della ventisettesima edizione del Torino Film Festival, in 9 giorni (dal 13 al 21 novembre) di programmazione se ne possono vedere non più di 30-40.
Nel seguito, oltre alla continuazione delle "impressioni", alcune istantanee del TFF.
Chi scrive queste righe è riuscito a vederne circa 30 in sei giorni (una vera follia, ma anche una autentica orgia per gli occhi). Questi dati appena accennati servono per dire che qualsiasi recensione di un festival di cinema non potrà mai essere esaustiva, ma molto molto parziale. Parzialissima. Impressionista al massimo.
L’impressione che si ricava complessivamente da TFF 27 è ottima. Si inserisce perfettamente nel solco della gloriosa storia di Torino Film Festival, nato (se non andiamo errati) nel 1983 con la dizione “Torino Cinema Giovani”. I tratti salienti di questa storia sono stati mantenuti e rafforzati. Innanzitutto il carattere di ricerca e l’attenzione nella sezione in concorso per le opere prime o seconde e per autori giovani e giovanissimi.
Pietro Marcello, vincitore del Primo Premio (una assoluta prima volta in TFF per i registi italiani) con il film “La bocca del lupo”, ha 33 anni ed ha alle spalle una lunga esperienza di apprezzato documentarista.
Ancora: il secondo riconoscimento ufficiale è andato ex-aequo a due giovanissimi. Alla ventiseienne canadese
Sherry White con il bel film “Crackie” e allo statunitense
Damien Chazelle (classe 1985) con “Guy and Madeline on a Park Bench”, film opera prima a 16mm, nato come tesi di laurea alla università di Harvard.
E inoltre: TFF 27 ha dedicato una personale a
Nicolas Winding Refn, filmaker danese non ancora quarantenne, attivo dal 1996 (con una delle sue cose migliori: il primo “Pusher”), il quale ha incentrato la sua opera (7 film più un film TV)sul mondo dei reietti. Reietti beninteso non nel senso neorealista del termine. Il sotto-mondo di Refn è un mondo dove vige sino al parossismo l’estetizzazione della violenza, dove la rivolta si trasforma in furore cosmico, dove i colori non sono quelli dell’occhio naturale, ma sono intrisi di viraggi e intonazioni che vanno al di là dell’umano. Tale poetica è sorretta da un grandissimo mestiere, sorprendente in un giovane europeo seppure con robuste frequentazioni USA. Un esempio per tutti: la direzione degli attori. Impeccabile, grandiosa. Valga per tutti il “Bronson” interpretatoda
Tom Hardy. Non è facile incontrare sugli schermi una recitazione tanto allucinata tanto sopra le righe quanto perfetta.
Il Festival di Torino si fa da sempre notare per una spiccata vocazione alla ricerca anche sul piano della storia del cinema, concretizzatasi nel 2009 nella doppia retrospettiva di
Nicholas Ray e di
Nagisa Oshima. Iniziative corroborate da pubblicazioni e seminari.
Su questo piano si pone anche la presenza di
Francis Ford Coppola con la presentazione in anteprima nazionale dell’ultima fatica del regista italo-americano ”Tetro”, intelligentemente inserita nella complessiva attività professionale del nostro sia come autore che come produttore, con sapienti rimandi storici e intertestuali.
Lo stesso discorso può essere fatto per le sezioni “Figli e amanti” (sei registi chiamati a presentare il film che ha scatenato la propria personale passione per il cinema) e “Cinema e cinemi” (uno sguardo non nostalgico ma militante sulla “Nouvelle Vague”, considerata, a ragione, colonna portante del cinema contemporaneo).
Ma il meglio di sé TFF, da sempre, lo da nelle sezioni ancor più sperimentali quali “Festa mobile”, “Onde” e le rassegne annuali “Italiana.Doc” e “Italiana. Corti”.
In queste sezioni può capitare di incontrarsi in veri e propri capolavori.
Ne segnalo uno: “Pink Subaru” di
Kazuya Ogawa. 32 anni, formatosi nel natio Giappone, specializzatosi alla School of Visual Arts di New York e infine stabilitosi in Italia, Ogawa ha lavorato in questo suo primo lungometraggio all’insegna della mescolanza. Sia sul piano dei contenuti che dello stile. Oriente e Occidente, mondo antico (il finale del film somiglia molto a una commedia di Menandro o di Terenzio) e mondo contemporaneo, magia e scienza, musica tradizionale e musica colta: tutto si mescola nella scoppiettante regia del nostro. Non a caso le vicende si svolgono nella città araboisraeliana di Tayibe e i rapporti fra israeliani e palestinesi, fra uomini e donne(ma meglio sarebbe dire fra sessi) non rispondono ai consunti canoni di tolleranza o di solidarietà ma di qualcosa che somiglia molto alla “mixofilia”predicata dal sociologo e filosofo Zygmunt Bauman. Infatti non si tratta più di comprendere e accettare la diversità, ma di amarla. Riconoscere che c’è in essa un potenziale creativo formidabile.
Tale film ci è sembrato la bella metafora della lunga avventura del Torino Film Festival.
Istantanee dal TFF: Gianni Amelio con Mario Monicelli (prima foto) e poi con Marco Campigiani (più sotto).