Sabato, 03 Settembre 2011 19:10

Primavera cilena? Indignados e movimenti di liberazione anche a Santiago

Scritto da  Gerardo

Luigi De Paoli ci segnala un articolo, apparso su "Le Monde Diplomatique" dell'agosto 2011, dal titolo Farla finita (veramente) con l’era di Pinochet (trad. it. José F. Padova).
Le primavere sbocciano in paesi imprevedibili. Ora tocca al Cile.





Farla finita (veramente) con l’era di Pinochet (traduzione dal francese di José F. Padova)


Centinaia di migliaia di persone nelle strade delle grandi città del Paese e questo da molti mesi; un sindaco, quello di Santiago, che suggerisce di chiamare l’esercito per evitare che la commemorazione dell’11 settembre 1973 (data del colpo di Stato contro il presidente Salvador Allende) sia causa scatenante di eccessi: il Cile vive un periodo inedito.

Mai, dalla fine della dittatura avvenuta nel 1990 in poi, il Paese aveva conosciuto mobilitazioni di simile importanza. Mai, dal 1956, un governo democratico si era trovato davanti a una simile contestazione popolare. All’origine di questo movimento, gli studenti hanno messo il governo di Sebastián Piñera (destra) in una posizione delicata: la sua quota di popolarità – il 26% - fa di lui sin d’ora il presidente meno popolare dal ritorno della democrazia in poi.

Questa lunga striscia di terra che costeggia l’Oceano Pacifico era tuttavia l’ultimo Paese delle regione nel quale ci si attendesse una simile effervescenza. Il «giaguaro» latino-americano, «modello tipicamente liberale», non era forse oggetto dell’ammirazione degli editorialisti di spicco? La stabilità politica vi era garantita, spiegavano, perché «la realtà aveva finito per erodere i miti e le utopie della sinistra, portandola (…) sul terreno della realtà, facendo la doccia fredda ai suoi passati furori e rendendola ragionevole e vegetariana [sic]». Il 28 aprile 2011, tuttavia, gli studenti cileni mostravano i denti. E non i molari.

In quel giorno gli studenti degli istituti pubblici e privati denunciavano il livello d’indebitamento che comporta l’accesso all’educazione superiore. In un Paese nel quale il salario minimo si fissa a 182.000 pesos (meno di 300 euro) e quello medio a 512.000 pesos (meno di 800 euro), i giovani (e le loro famiglie) sborsano fra 170.000 e 400.000 pesos (fra 250 e 600 euro) al mese per pagare un corso universitario. Per conseguenza, 70% degli studenti s’indebitano e 65% dei più poveri interrompono gli studi per motivi finanziari.

Riunendo 8.000 persone, questa prima manifestazione non sembra destinata a priori a un avvenire qualsiasi. Nondimeno viene a gonfiare un po’ più il fiume della protesta sociale, già alimentato da diverse mobilitazioni attraverso tutto il Paese: in favore di una migliore redistribuzione dei profitti legati all’estrazione del rame a Calama, del mantenimento del prezzo del gas a Magallanes, dell’indennizzo delle vittime del terremoto del gennaio 2010 sulla costa, del rispetto per gli indios Mapuche nel sud, o ancora della diversità sessuale a Santiago. Nel mese di marzo anche il progetto HidroAysén aveva contribuito a unire ancor più i Cileni – contro di esso.

Pilotato dalla multinazionale italiana Endesa-Enel, associata al gruppo cileno Colbún, e sostenuto dal governo, dai partiti della destra e da certi dirigenti della Concertación (centro-sinistra), questo progetto di costruzione di cinque immense dighe in Patagonia era stato approvato senza la benché minima consultazione popolare. Di fronte all’ampiezza della mobilitazione (più di trentamila persone attraverso tutto il Paese), il governo si trova in una situazione complicata.

In giugno la mobilitazione studentesca raggiunge la sua velocità di crociera: il 16 avviene la prima manifestazione con 200.000 persone – la più grande dopo il periodo della dittatura. Organizzando scioperi di massa e bloccando i licei, i manifestanti denunciano la «mercificazione dell’istruzione» ed esigono «un insegnamento gratuito e di qualità»: una rivendicazione che rimette in causa i fondamenti stessi del «modello cileno», ereditato dalla dittatura. Nelle strade, gli studenti non si lasciano trarre in inganno e scandiscono «Cadrà, cadrà, l’istruzione pubblica di Pinochet!», riferendosi agli slogan ascoltati ai tempi delle manifestazioni contro la dittatura, più di vent’anni prima («Cadrà, cadrà, la dittatura di Pinochet»). Perché se il Cile di Pinochet è stato un «laboratorio» per i politici neoliberisti, lo è stato anche nel campo dell’istruzione. Sul sogno che l’economista monetarista Milton Friedman formulava nel 1984 i generali avevano già lavorato fin dalla loro presa del potere.

Rare nel 1973, le scuole private accolgono ormai il 60% degli alunni delle primarie e secondarie. Meno del 25% del sistema educativo è finanziato dallo Stato, i bilanci degli istituti dipendono in media al 75% dalle tasse d’iscrizione. D’altra parte, lo Stato cileno non dedica che il 4,4% del PIL all’insegnamento, molto meno del 7% raccomandato dall’Unesco. Nel campo universitario – caso unico in America latina – nel Paese non esiste alcun istituto pubblico gratuito. Secondo il sociologo Mario Garcés, le riforme di Pinochet – mantenute e approfondite dai diversi governi susseguitisi dopo la caduta della dittatura – hanno pervertito la missione del sistema educativo: in origine esso mirava a favorire la mobilità sociale, ormai conferma la riproduzione di disuguaglianze.

Ma – domandano gli studenti, ai quali non sono sfuggiti i discorsi soddisfatti sullo «sviluppo» dell’economia cilena (che le ha aperto le porte dell’OCSE nel dicembre 2009) – se l’istruzione era gratuita quaranta anni fa, quando il Paese era povero, perché dovrebbe essere a pagamento oggi, quando è diventato (più) ricco? Una domanda sufficiente per fare stravolgere tutta una logica dalla testa ai piedi e la cui portata oltrepassa evidentemente il campo dell’istruzione. Come le rivendicazioni studentesche: avviata da un’Assemblea costituente per promuovere una vera democrazia, la ri-nazionalizzazione del rame o ancora la riforma fiscale; si tratta, in fin dei conti, «di farla finita con l’era di Pinochet». Sospettosi nei confronti di dirigenti politici che non ispirano loro più alcuna fiducia, i manifestanti esigono che l’avvenire del sistema educativo sia sottoposto a un referendum (malgrado sia vietato dalla Costituzione).

Contestare i partiti politici non significa necessariamente promuovere una forma di beata apoliticità. Gli studenti hanno occupato le sedi della rete televisiva (Chilevisión), dell’Unione democratica indipendente (UDI, il partito derivato dal pinochettismo) e quella del Partito socialista, identificati come tre simboli del potere. I discorsi apologetici di una sinistra istituzionale che si dice volentieri colpevole di avere « chiesto troppo », - scatenando così l’inevitabile collera dei possidenti nel 1973 – o quelli miranti a promuovere il ritiro dello Stato, non sembrano fare presa su una generazione che non ha conosciuto il putsch. I manifestanti non esitano, d’altro canto, a riabilitare la figura dell’antico presidente, Salvador Allende: i suoi discorsi sull’istruzione, pronunciati più di quarant’anni fa, hanno recentemente battuto il record delle consultazioni su Internet; la sua effige appare nuovamente nelle manifestazioni, dove cartelli proclamano che «I sogni di Allende sono a portata di mano».

Questa chiarezza politica non ha indebolito il movimento studentesco – al contrario. Gli studenti hanno ricevuto il sostegno degli universitari, degli insegnanti delle scuole secondarie, delle associazioni di genitori di allievi, di diverse organizzazioni non governative (ONG), riunite nell’Associazione cilena delle ONG, Acción e di importanti sindacati (professori, funzionari, personale della sanità, ecc.). Molto spesso la solidarietà si organizza per sostenere i manifestanti che occupano un istituto, sotto forma di pacchi di cibo portati a chi occupa, per esempio. Secondo i sondaggi, anche se commissionati da media molto vicini al potere, gli studenti godono del sostegno dal 70 all’80% della popolazione.

Allora, perché adesso? Certamente, il Cile ha già conosciuto mobilitazioni studentesche, in particolare la «rivoluzione dei pinguini» nel 2006, sotto la presidenza di Michelle Bachelet (centro-sinistra). Comunque mai le manifestazioni attirarono altrettanta gente: durante due decenni, i governi di centro-sinistra della Concertación pervennero ad amministrare l’eredità della dittatura mentre riducevano la povertà ma accentuando le disuguaglianze: nell’ora attuale il Cile figura nel numero dei quindici Paesi con maggior disuguaglianze in tutto il pianeta. A poco a poco le speranze di trasformazione legate alla caduta della dittatura sono state deluse, mentre si accumulavano i debiti degli studenti.

L’ingiustizia del sistema è forse apparsa sotto una luce più cruda con l’arrivo al potere di Piñera, che si è dato rapidamente la missione di rafforzare – ancora – la logica del mercato nell’ambito del sistema dell’istruzione. I conflitti d’interesse in seno al governo hanno d’altra parte messo in evidenza alcune derive: il ministro dell’Educazione di Piñera, Joaquín Lavín, era anche fondatore e azionista dell’Università dello Sviluppo, un istituto privato.

La risposta del governo, per ora, consiste nel tentare di criminalizzare i manifestanti. La stampa non manca di mettere in rilievo le azioni commesse da frazioni violente, talvolta infiltrate da poliziotti in borghese (come dimostrano numerosi video e fotografie (13)). Il 1 agosto, ritenendo che vi è «un limite a tutto», Piñera faceva vietare una manifestazione sulla Alameda (grande viale alberato scelto dagli studenti perché ricordato da Allende nel suo ultimo discorso): la repressione fu condotta sistematicamente, con più di 870 fermi di polizia. Ma la violenza della polizia non ha fatto altro che accrescere il sostegno popolare ai manifestanti. La sera stessa risuonavano i cacerolazos (da : cacerola, padella – manifestazioni durante le quale ognuno batte su una pentola o un coperchio) attraverso tutto il Paese: l’intransigenza governativa aveva trasformato la sfilata in «protesta nazionale», termine utilizzato per definire… i raduni a favore della democrazia ai tempi della dittatura.

Gli studenti continuano la mobilitazione. Con l’appoggio dei loro sostenitori – che non si limitano più alle classi medie – si uniranno a uno sciopero generale il 24 e 25 agosto, nella speranza di allargare la breccia aperta.

Un’eredità ingombrante

Costituzione La Costituzione in vigore data dal 1980: fu approvata (mediante un imbroglio) sotto la dittatura. Antidemocratica, garantisce alla destra cilena quasi automaticamente la metà dei seggi del Senato e della Camera dei deputati.

Istruzione Nel 1981 Augusto Pinochet riforma il sistema universitario ed elimina l’istruzione superiore gratuita. Il 10 marzo 1990, alla vigilia della sua partenza, promulga la Legge organica costituzionale per l’insegnamento, che riduce ancor più il ruolo dello Stato nell’istruzione e delega nuove prerogative al settore privato.

Protezione sociale Nel 1980 la dittatura privatizza il sistema pensionistico (decreti 3.500 e 3.501 proposti dal fratello di Piñera, José. Nel 1981 sono create le Isapres, sistemi di sanità privata. Non verranno rinazionalizzati al ritorno della democrazia.

Media Il giorno del colpo di Stato la Giunta pubblica il bando (decreto) 15, che proibisce tutti i giornali salvo El Mercurio e La Tercera, all’origine dei due gruppi di stampa che controllano oggi il settore giornalistico cileno.

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