Venerdì, 25 Novembre 2011 01:46

Napolitano e le nuove generazioni di italiani

Scritto da  Gerardo

Con piacere presentiamo ai nostri lettori un articolo di Chiara Saraceno, comparso in "la Repubblica" del 23 novembre, nel quale si fa riferimento alla denuncia, da parte del Presidente della Repubblica, dello status di cittadini dimezzati di cui "godrebbero" bambini e adolescenti figli di stranieri che si trovano non solo legalmente ma anche culturalmente, e a pieno titolo, in Italia.




Quei ragazzi nel limbo
di Chiara Saraceno


Instancabilmente il presidente Giorgio Napolitano richiama la classe politica al dovere della responsabilità in tutti i settori cruciali per il futuro del Paese, quindi necessariamente anche per le condizioni in cui si trovano a crescere e operare le nuove generazioni, inclusi i bambini e adolescenti legalmente stranieri. Stranieri ma di fatto italianissimi per autoidentificazione ed esperienza quotidiana. A due riprese nel giro di pochi giorni, il Presidente ne ha denunciato con nettezza lo status di cittadini dimezzati, che li colloca in una sorta di limbo del diritto, di persone senza territorio e senza appartenenza.

I minori nati in Italia da genitori entrambi stranieri e residenti nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. Il loro numero è raddoppiato dal 2000, quando erano 277 mila. Costituiscono ormai quasi il 14% dei bambini che nascono ogni anno in Italia. In un Paese che invecchia rapidamente a causa della bassissima fecondità, si tratta di numeri importanti e di una risorsa umana preziosa. Tuttavia il nostro ordinamento continua a considerarli con indifferenza, quando non ostilità. Insieme ai bambini e ragazzi che sono nati altrove, ma stanno vivendo tutta la loro infanzia e adolescenza nel nostro Paese, condividendo lingua e abitudini con i loro coetanei autoctoni, i minori "stranieri" nati in Italia, infatti, vivono in una sorta di condizione sospesa per quanto riguarda la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. La legge italiana li costringe in uno statuto di apolidi di fatto, se non di principio, con tutte le restrizioni che questo comporta. Se per qualche motivo i loro genitori perdono il diritto di soggiorno, ne seguono il destino, anche se l'Italia è l'unico paese che conoscono e in cui sono cresciuti. Ed è meglio che non passino lunghi periodi fuori Italia, per uno stage formativo o per stare con parenti rimasti nel paese d'origine, se non vogliono rischiare di perdere il diritto a chiedere la cittadinanza. Mentre a un giovane nato e cresciuto all'estero da genitori italiani che magari non hanno mai vissuto in Italia bastano due anni di soggiorno ininterrotto in Italia per ottenere la cittadinanza, ne occorrono diciotto ad uno figlio di stranieri nato e vissuto nel nostro paese, di cui ha frequentato le scuole, conosce la lingua e acquisito lo stile di vita e le norme di convivenza sociale.

Sono i paradossi dello jus sanguinis, che concepisce la nazionalità come una sorta di gene che si trasmette per via ereditaria e non per partecipazione quotidiana ad una società.
Sospesi tra due mondi, i bambini e adolescenti stranieri che nascono e crescono nel nostro Paese non appartengono a nessuno dei due: uno non lo conoscono, l'altro non li riconosce. L'esperienza di essere straniero nel loro caso è estrema; perché non c'è patria cui si possano sentire pienamente appartenenti. Si tratta di un'esperienza difficile anche per un adulto, ma che per una persona impegnata nella definizione della propria identità e nella individuazione del proprio posto nel mondo costituisce un handicap inutilmente gravoso. Può anche innescare processi di rifiuto, di estremizzazione difensiva della propria non appartenenza, con grave danno per tutti.
Sono ormai anni che si discute di una riforma della legge del 1992 sulla cittadinanza, in particolare, anche se non esclusivamente, per quanto riguarda chi è nato in Italia o comunque vi ha frequentato le scuole. Chissà se il Parlamento, liberato dalla necessità di discutere di provvedimenti di legge ad personam, troverà il tempo e il senso di responsabilità per approvare finalmente norme più civili e lungimiranti nei confronti dei ragazzi che crescono tra noi e con noi e che, con i nostri, sono il presente e il futuro del Paese. Solo se smettiamo di considerarli stranieri di passaggio, e anzi investiamo su di loro e sul loro desiderio di appartenenza, possiamo aspettarci da loro, come da tutti, che si impegnino lealmente per il nostro comune Paese. A differenza di quanto fanno i leghisti, per i quali l'appartenenza nazionale è solo un'arma da giocare contro gli immigrati, ma da rifiutare per tutto il resto.

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