Martedì, 03 Luglio 2012 14:04

Intorno alla presentazione di Religioni e Società

Scritto da  Gerardo

Da Riccardo Albani, riceviamo una missiva, in cui lo stesso riprende alcune suggestioni emerse durante la presentazione del numero 72 di Religioni e Società. A partire "da una analisi accurata del bel titolo di questo numero: I cattolici inquieti a Firenze nel secondo Dopoguerra. Oltre la mitologia".
Buona lettura!




Caro Direttore,
vorrei riprendere alcune suggestioni emerse durante la presentazione del numero 72 della tua rivista, che mi sono sembrate di grande interesse. Si potrebbe partire, credo con una qualche utilità , da una analisi accurata del bel titolo di questo numero: "I cattolici inquieti a Firenze nel secondo Dopoguerra. Oltre la mitologia".
Dal Devoto-Oli ricavo che 'inquieto' significa "turbato da una insistente agitazione o insoddisfazione o insofferenza". Dai vari dizionari risulta comunque che l'inquietudine è una caratteristica permanente.
Il Littrè aggiunge una connotazione molto interessante, perché parla di una agitazione continua provocata dalla sofferenza. Si potrebbe dire che l'inquietudine è uno stato di scontentezza per la realtà presente e che spinge al cambiamento.
Alcuni relatori di quel pomeriggio del 22 giugno si sono chiesti se esista un elemento che unisca questo universo polifonico, dove ognuno dei protagonisti sembra andare per conto suo. Io direi che nel tuo titolo c'è già , implicita, la risposta. È proprio l'inquietudine, la scontentezza per la realtà del tempo che può essere vista come la cornice unificante dei vari protagonisti di quella stagione.
È poi singolare che periodicamente, ed anche da versanti opposti, si ritorni a riflettere su questo periodo, per interrogarlo e decifrarlo. Tutto ciò sta a significare che è un'epoca ben delimitata, con contorni e caratteristiche unificanti. È vero, come dice Paolo Giannoni, che bisogna fare 'oltraggio' (cioè oltrepassare), ma non si può andare oltre se non partendo da un luogo che si continua a ritenere importante.
La critica al balduccificio, al donmilanificio ecc. è perfettamente legittima, perché indica in modo icastico che non si è ancora riusciti a superare il periodo considerato, e questo provoca la sua persistente mitizzazione. Ma a questo proposito vorrei suggerire, sommessamente, anche una accezione positiva del mito, di questa 'tentazione' che ha pure una sua fondatezza, perché ci rimanda, implicitamente, ad una critica del presente. Ormai sappiamo, per esempio da Ernesto De Martino, che le popolazioni "primitive" ricorrono al mito quando il presente fa paura, quando non si è in grado di superare "la crisi della presenza". Allora si potrebbe anche dire che mitizzare quel tempo non significa soltanto essere bloccati da un rapporto viziato con il passato (come direbbe Furio Jesi), ma al tempo stesso sentire che è proprio il nostro tempo ad essere bloccato (e, per ritornare al tuo titolo, privo di inquietudine).
Il mito ha dunque una funzione positiva perché mette in evidenza con chiarezza la miseria del nostro presente. Credo allora che (certo sulla scia di molti antropologi, etnologi, filosofi ecc.), vada colto il nocciolo di verità del mito, da non intendere soltanto come follia, favola o malata persistenza del passato, ma anche come indice di un problema non risolto, e quindi come qualcosa di profondamente radicato nella realtà storica, dalla quale, del resto, sorge.
Vorrei terminare questa mia lettera (già abbastanza lunga), con un'ultima riflessione, che certamente richiederebbe ben altro approfondimento. Ci si potrebbe chiedere perché proprio in quel periodo siano apparsi, tutti insieme, così tanti preti e laici credenti, caratterizzati appunto da insofferenza e da insoddisfazione per la realtà delle chiesa (l'"inquietudine" di cui si parlava all'inizio). Bisogna riconoscere che non c'è stata in nessuno dei protagonisti di quella stagione una intenzione programmata e voluta, come dire che la storia, con il susseguirsi delle sue epoche, ha sempre qualcosa di "misterioso" (la Provvidenza degli antichi, e dei nostri padri), che fa problema (contro un astratto storicismo che vorrebbe la storia totalmente in mano alla progettualità degli uomini). Le epoche "accadono", anche al di là della volontà degli uomini.
Come ha ricordato Pino Ruggieri nel suo ultimo libro, "Prima lezione di teologia", l'intuizione più profonda di papa Giovanni e del Concilio è stata il richiamo ai "segni dei tempi", il riconoscimento cioè che la storia è un luogo teologico, che può suggerire agli uomini di buona volontà le intenzioni di Dio.
La stagione '50-'70 (per intenderci), può essere letta anche in chiave teologica, e questo potrebbe spiegare la ragione del continuo riferimento a quegli anni. "Anni felici",in cui è possibile vedere la manifestazione della volontà di Dio, ancora tutta da decifrare e da interrogare (così come il Suo silenzio nel nostro presente).

Grazie per la tua gentile attenzione,
Riccardo Albani

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