Giovedì, 23 Maggio 2013 17:31

Un saluto a Don Gallo

Scritto da  Gerardo

Con commozione, dopo l'altro amico di Asfer, Don Renzo Rossi, salutiamo Don Andrea Gallo, anch'egli ospite e protagonista di una delle ultime edizioni della Summer School on Religions, a San Gimignano.
Nel seguito, riportiamo l'articolo di Oreste Pivetta, apparso su "l'Unità" del 23 maggio 2013, con il titolo Don Gallo, un prete dalla parte degli ultimi.


Don Gallo, un prete dalla parte degli ultimi

Come ricordare don Gallo a distanza di ore soltanto dalla sua morte?
In mezzo alle «tute bianche» davanti a uno stadio, quando il corteo stava incamminandosi verso Brignole, una mattina, dodici anni fa, poche ore prima che la polizia caricasse, poche ore prima che Carletto Giuliani venisse ucciso, l’indimenticabile G8 genovese e berlusconiano. In chiesa a sentirlo cantare "Bella ciao". Davanti a una telecamera, quando invitò Berlusconi, «malato», a ritirarsi nella «sua comunità». Oppure in testa alla sfilata per un Gay Pride, accusando la sua Chiesa di incertezze, di ambiguità, di doppiezza, di poco amore insomma. Un prete in mezzo ai poveri, ai detenuti, alle prostitute dei vicoli, ai vecchi abbandonati, agli ultimi, a predicare più che la dottrina la necessità di fare, di operare, di costruire qualcosa di utile e presto, subito, perché così reclamavano e reclamano tante condizioni di disperazione, di ingiustizia, di miseria materiale e morale. Viene in mente una bellissima frase di don Milani, il prete di Barbiana: vi è un tempo per le opere e vi è un tempo per la preghiera; ma se vi è urgenza di operare, allora si deve operare; quando tutti avranno capito che bisogna fare, per noi (per noi cristiani) verrà il momento della preghiera. Don Andrea Gallo era così, preso dall’ansia, dalla volontà di costruire concretamente, alle prese con la vita, con le sue difficoltà, con le sue contraddizioni, con i suoi errori, con i suoi difetti, senza mai rimandare l’impegno ad apocalittiche resurrezioni. Era un prete di chiesa e di strada come in Italia ce ne sono stati tanti, come nel mondo ce ne sono stati tanti, operatori prima che predicatori, nemici del pregiudizio e dell’ideologia, preti antimafia e preti operai, preti antifascisti e partigiani, preti delle periferie e preti di scuole di montagna. Come don Milani, appunto, al quale richiama un’altra bella espressione don Gallo, un’espressione che fece scandalo, quando alla fine degli anni sessanta era diventato vice parroco nella chiesa del Carmine. Pare che nel quartiere fosse stata scoperta una fumeria di hashish. I cittadini si mostrarono indignati. Don Gallo, durante l’omelia domenicale, ricordò che ben più profonda indignazione avrebbe dovuto suscitare certo linguaggio, in virtù del quale, ad esempio, un ragazzo poteva diventare «inadatto agli studi», se figlio di povera gente. Come don Milani che diceva rivolgendosi ai suoi professori e alle sue professoresse: «Voi dite che bocciate i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi».
Don Gallo cominciò dai giovani. Era nato a Genova il 18 luglio 1928. Ventenne entrò nel seminario salesiano di Varazze, continuò gli studi a Roma, chiese nel 1953 di partire per le missioni e venne destinato ad una comunità di San Paolo del Brasile. Tornò in Italia e venne ordinato sacerdote nel 1959. La sua prima esperienza fu come cappellano alla nave scuola della Garaventa, riformatorio per minori. Cercò di educare quei giovani, richiamandoli alla loro responsabilità, attraverso una pedagogia fondata sulla fiducia e sulla libertà, consentendo loro di uscire, di andare al cinema, di vivere momenti di autogestione, smantellando a poco a poco le condizioni brutali della detenzione. Si era appunto al principio degli anni sessanta, quando una cultura di ispirazione libertaria cominciava a mettere in discussione le cosiddette «istituzioni totali», dalla famiglia al carcere, al manicomio, dalla scuola alla caserma, in America come più tardi in Europa e in Italia. Don Gallo si trovò da quella parte, anti istituzionale, anti repressiva. Lo definirono, presto, un comunista, ma comunista poteva esserlo come allora poteva essere un prete, nel senso del ripristino o della esaltazione di valori comunitari, che la società consumistica, scegliendo la strada dell’individualismo, andava smantellando.
Don Gallo entrò presto in conflitto con i suoi superiori, nel 1964 lasciò la congregazione salesiana. La definì «istituzionalizzata». Entrò nella diocesi di Genova, allora diretta dal cardinal Siri, che gli affidò l’incarico di cappellano del carcere della Capraia. Rimase poco alla Capraia. Gli toccò la parrocchia del Carmine, che divenne presto luogo di diseredati e di emarginati e di quanti concepivano come primo dovere di un fedele l’aiuto ai poveri. Fu allontanato anche dal Carmine.
Siri gli indicò la via della Capraia, ancora. Don Gallo rifiutò, trovò ospitalità nella parrocchia di San Benedetto al Porto e con don Federico Rebora fondò la sua Comunità. Da lì, da quella chiesa, da quella comunità, cercò di continuare la sua opera, instancabile, generosa, sorprendente, guidato da una vocazione limpida a sostenere sempre la parte delle minoranze deboli, oppresse, costruendo alleanze, senza mai paura di dichiararsi. Anche politicamente: magari per il candidato sindaco Marco Doria o per il leader di Sel, Nichi Vendola. Gli toccò il premio «Fabrizio De André» (del cantautore era stato grande amico). Gli toccò il titolo di «Personaggio dell’anno Gay», nel 2011, quando sostenne le rivendicazioni del Gay Pride. Gli toccarono infinite sfilate televisive, dove cercò sempre di rappresentare il suo mondo di poveri, di deboli, di emarginati, sconfinando nella politica che praticava a braccio, che probabilmente non poteva sentire sua, troppo distante nei suoi meccanismi dalla materialità dei problemi che la sua «città» viveva, la faccia opposta di un altro celeberrimo prete genovese, quel don Gianni Baget Bozzo, coltissimo, raffinatissimo nei suoi esercizi politici, alla fine precipitato tra gli ispiratori di Berlusconi, vicinissimo invece don Gallo a quella città disperata e insieme ricca di vincoli e di umanità come può essere Genova, nelle stradine antiche, nel porto, nelle periferie che furono operaie, tra i viali e i portici di un manicomio, nei ghetti sconosciuti della povertà. Di questa città Don Gallo, cappellaccio in testa, sigaro in mano, parlata roca e intonazione dialettale, era protagonista e portavoce, intatto nella sua semplicità e nella sua determinazione operosa.

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