Sabato, 30 Agosto 2014 16:52

Israele nel deserto

Scritto da  Gerardo

Dall’amico Luigi De Paoli, riceviamo un interessante analisi, anche testuale, di Antonio Vigilante.
Con le parole di Gigi, “forse è il caso di domandarci se quello che sta facendo Israele non sia la ripetizione di quei genocidi che gli israeliti hanno ripetutamente scritto nella Bibbia,  attribuendoli a Dio”.





Israele nel deserto
di Antonio Vigilante
 
Premessa
Non sempre coloro che prevalgono sono i vincitori effettivi di una guerra. Il governo israeliano potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Pagherà un prezzo molto elevato: un imbarbarimento del suo popolo del quale i cori da stadio di manifestanti che esultano perché “domani non ci sarà scuola, abbiamo ucciso tutti i bambini” sono già un indizio tangibile. Sarà quella demonizzazione biblica dell’altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell’ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà la crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.

***
 
Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia – una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni – è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, “Nel deserto”) in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a “trescare con le figlie di Moab”, partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E’ singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa -perché di questo si tratta.
 
Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto – l’assassinio di due innocenti – che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L’edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas “testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale”. Un gran brav’uomo, insomma.
 
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell’esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d’Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (Numeri, 31, 15-17).
 
Tralasciamo quest’ultima notazione, anch’essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
 
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante,disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: “Il n’y aura pas d’école demain, on a tué tous les enfants”. Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
 
E’, questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo.Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambinipalestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c’è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
 
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell’ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: “Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani…” (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l’orrore.
 
I versi più intensi dell’opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, “nera, stanca, disperata”, che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. 
 
Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. “Dov’è Dio?”, chiede qualcuno. E Wiesel scrive: “E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”.
C’è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E’ una intuizione – questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti – che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra laShekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l’idea del Daridranarayana, “Dio nei poveri”, che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
 
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l’indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l’orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l’umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell’identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
 
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell’altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell’ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.


Fonte: Spectator Novus il blog di Antonio Vigilante. 18 Agosto.  Questo articolo è uscito come editoriale per Stato Quotidiano.

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