Martedì, 23 Giugno 2015 20:07

L’enciclica "ecologica" - o eco-sistemica - di Papa Francesco

Scritto da  Gerardo

Dall’amico Luigi De Paoli riceviamo e condividiamo alcuni brani dell'enciclica ‘ecologica’ (o eco-sistemica) di Papa Francesco. I temi trattati sono di straordinaria attualità, dato che: 1) a luglio si tiene la conferenza sullo sviluppo ad Addis Abeba; 2) a Settembre l'Assemblea Generale dell'ONU sullo sviluppo sostenibile; 3) in Dicembre, a Parigi, la Conferenza sui cambiamenti climatici.
Buona lettura!




ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO

SULLA CURA ELLA CASA COMUNE


«Laudato si’, mi’ Signore», cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricor­dava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».

Credo che Francesco sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. È il santo patrono di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia, amato anche da molti che non sono cristiani. Egli manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati.

In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore.

Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza que­sta apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i no­stri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle ri­sorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrie­tà e la cura scaturiranno in maniera spontanea.
La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio.

Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale.

Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della so­cietà colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta: «Tanto l’esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostra­no che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera».26 Per esempio, l’esaurimento delle riserve ittiche pena­lizza specialmente coloro che vivono della pesca artigianale e non hanno come sostituirla, l’inqui­namento dell’acqua colpisce in particolare i più poveri che non hanno la possibilità di comprare acqua imbottigliata, e l’innalzamento del livello del mare colpisce principalmente le popolazioni costiere impoverite che non ha dove trasferirsi. L’impatto degli squilibri attuali si manifesta an­che nella morte prematura di molti poveri, nei conflitti generati dalla mancanza di risorse e in tanti altri problemi che non trovano spazio suffi­ciente nelle agende del mondo.

Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.

L’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali. C’è infatti un vero 40 “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con con­seguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi. Le esportazioni di alcune materie prime per soddisfare i mercati nel Nord industrializzato hanno prodotto dan­ni locali, come l’inquinamento da mercurio nelle miniere d’oro o da diossido di zolfo in quelle di rame.

A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’at­tività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale: «Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosid­detto primo mondo.

Queste situazioni provocano i gemiti di so­rella terra, che si uniscono ai gemiti degli abban­donati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli.

Degna di nota è la debolezza della reazio­ne politica internazionale. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facil­mente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti.

Nel frattempo i poteri economici conti­nuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignora­re ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degra­do ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito.

Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?

La speranza ci invita a riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare rotta, che possia­mo sempre fare qualcosa per risolvere i proble­mi. Tuttavia, sembra di riscontrare sintomi di un punto di rottura, a causa della grande velocità dei cambiamenti e del degrado, che si manifestano tanto in catastrofi naturali regionali quanto in cri­si sociali o anche finanziarie, dato che i problemi del mondo non si possono analizzare né spiega­re in modo isolato. Ci sono regioni che sono già particolarmente a rischio e, aldilà di qualunque previsione catastrofica, è certo che l’attuale siste­ma mondiale è insostenibile da diversi punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano.

«L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servi­zio le une delle altre».

Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerez­za, compassione e preoccupazione per gli esseri umani... D’altra parte, quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nes­suno è escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sem­pre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltratta­re un animale non tarda a manifestarsi nella rela­zione con le altre persone.

Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospet­tiva sociale che tenga conto dei diritti fondamen­tali dei più svantaggiati. Il principio della subor­dinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del compor­tamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale».

Questo ha conseguenze pratiche, come quelle enunciate dai Vescovi del Paraguay: «Ogni contadino ha diritto naturale a possedere un appezzamento ragionevole di terra, dove possa stabilire la sua casa, lavorare per il so­stentamento della sua famiglia e avere sicurezza per la propria esistenza. Tale diritto dev’essere garantito perché il suo esercizio non sia illusorio ma reale. Il che significa che, oltre al titolo di pro­prietà, il contadino deve contare su mezzi di for­mazione tecnica, prestiti, assicurazioni e accesso al mercato».

L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a be­neficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamen­to “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».

L’umanità è entrata in una nuova era in cui la potenza della tecnologia ci pone di fronte ad un bivio. Siamo gli eredi di due secoli di enormi ondate di cambiamento..... La tecnologia ha posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano e limitavano l’essere uma­no. Non possiamo non apprezzare e ringrazia­re per i progressi conseguiti, specialmente nella medicina, nell’ingegneria e nelle comunicazioni.

Tuttavia non possiamo ignorare che l’e­nergia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro stesso DNA e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressio­nante sull’insieme del genere umano e del mon­do intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo.

Si tende a credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accresci­mento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori», come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontanea­mente dal potere stesso della tecnologia e dell’e­conomia.

Ogni epoca tende a sviluppare una scarsa autocoscienza dei propri limiti. Per tale motivo è possibile che oggi l’umanità non avver­ta la serietà delle sfide che le si presentano, e «la possibilità dell’uomo di usare male della sua po­tenza è in continuo aumento» quando «non esi­stono norme di libertà, ma solo pretese necessità di utilità e di sicurezza».

Da qui si passa facilmen­te all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presup­posto che «esiste una quantità illimitata di ener­gia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti».

L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza pre­stare attenzione a eventuali conseguenze negati­ve per l’essere umano. La finanza soffoca l’eco­nomia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi am­bientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolve­ranno semplicemente con la crescita del merca­to.

D’altronde, la gente ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida cieca­mente in un domani migliore a partire dalle at­tuali condizioni del mondo e dalle capacità tec­niche. Prende coscienza che il progresso della scienza e della tecnica non equivale al progresso dell’umanità e della storia, e intravede che sono altre le strade fondamentali per un futuro felice. Ciononostante, neppure immagina di rinunciare alle possibilità che offre la tecnologia. L’umani­tà si è modificata profondamente e l’accumularsi di continue novità consacra una fugacità che ci trascina in superficie in un’unica direzione. Di­venta difficile fermarci per recuperare la profon­dità della vita.

Una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della rela­zione dell’essere umano con il mondo. Molte vol­te è stato trasmesso un sogno prometeico di do­minio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di in­tenderlo come amministratore responsabile.

Il lavoro è una necessità, è parte del sen­so della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. In questo senso, aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Tuttavia l’orien­tamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i co­sti di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso.

Perché continui ad essere possibile offrire occupazione, è indispensabile promuovere un’e­conomia che favorisca la diversificazione pro­duttiva e la creatività imprenditoriale. Per esem­pio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in pic­coli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale. Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad ab­bandonare le loro coltivazioni tradizionali. I ten­tativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa della difficoltà di accedere ai mercati regio­nali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi impre­se. Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanzia­rio.

Sebbene non disponiamo di prove defini­tive circa il danno che potrebbero causare i cereali transgenici agli esseri umani, e in alcune regioni il loro utilizzo ha prodotto una crescita economica che ha contribuito a risolvere alcuni problemi, si riscontrano significative difficoltà che non devo­no essere minimizzate. In molte zone, in seguito all’introduzione di queste coltivazioni, si constata una concentrazione di terre produttive nelle mani di pochi, dovuta alla «progressiva scomparsa dei piccoli produttori, che, in conseguenza della per­dita delle terre coltivate, si sono visti obbligati a ritirarsi dalla produzione diretta». I più fragili tra questi diventano lavoratori precari e molti sa­lariati agricoli finiscono per migrare in miserabili insediamenti urbani. L’estendersi di queste colti­vazioni distrugge la complessa trama degli eco­sistemi, diminuisce la diversità nella produzione e colpisce il presente o il futuro delle economie regionali. In diversi Paesi si riscontra una tenden­za allo sviluppo di oligopoli nella produzione di sementi e di altri prodotti necessari per la coltiva­zione, e la dipendenza si aggrava se si considera la produzione di semi sterili, che finirebbe per obbligare i contadini a comprarne dalle imprese produttrici.

Senza dubbio c’è bisogno di un’attenzione costante, che porti a considerare tutti gli aspet­ti etici implicati. A tal fine occorre assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabi­le e ampio, in grado di considerare tutta l’infor­mazione disponibile e di chiamare le cose con il loro nome. A volte non si mette sul tavolo l’in­formazione completa, ma la si seleziona secondo i propri interessi, siano essi politici, economici o ideologici. Questo rende difficile elaborare un giudizio equilibrato e prudente sulle diverse que­stioni, tenendo presenti tutte le variabili in gioco.

Quella degli OGM è una questione di carattere complesso, che esige di essere affrontata con uno sguardo compren­sivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diver­se linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce.

Non è superfluo insistere ulteriormente sul fatto che tutto è connesso. Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazio­nati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere. Buona parte della nostra informa­zione genetica è condivisa con molti esseri viventi. Per tale ragione, le conoscenze frammentarie e isolate possono diventare una forma d’ignoranza se fanno resistenza ad integrarsi in una visione più ampia della realtà.

È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei siste­mi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-am­bientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.

Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità del­la vita umana: «Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali». In tal senso, l’ecologia sociale è necessariamente istituzionale e raggiunge progressivamente le di­verse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita internaziona­le, passando per la comunità locale e la Nazio­ne.

Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugual­mente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abi­tabile. Non si tratta di distruggere e di creare nuove città ipoteticamente più ecologiche, dove non sempre risulta desiderabile vivere. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’iden­tità originale.

In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una sem­plice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi pro­getti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di in­teragire per alimentare la loro identità e i loro va­lori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pres­sioni affinché abbandonino le loro terre e le lasci­no libere per progetti estrattivi, agricoli o di alle­vamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura.

È ammirevole la creatività e la generosità di persone e gruppi che sono capaci di ribaltare i limiti dell’ambiente, modificando gli effetti avversi dei condizionamenti, e imparando ad orientare la loro esistenza in mezzo al disordine e alla preca­rietà. Per esempio, in alcuni luoghi, dove le facciate degli edifici sono molto deteriorate, vi sono per­sone che curano con molta dignità l’interno delle loro abitazioni, o si sentono a loro agio per la cor­dialità e l’amicizia della gente. La vita sociale po­sitiva e benefica degli abitanti diffonde luce in un ambiente a prima vista invivibile. A volte è enco­miabile l’ecologia umana che riescono a sviluppare i poveri in mezzo a tante limitazioni.

È provato inoltre che l’estrema penuria che si vive in alcuni ambienti privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il sorgere di comportamenti disumani e la manipo­lazione delle persone da parte di organizzazio­ni criminali. Per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare dall’affollamento all’anonimato sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza...

È necessario curare gli spazi pubblici, i quadri prospettici e i punti di riferimento urbani che accrescono il nostro senso si appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro “sentirci a casa” all’interno della città che ci con­tiene e ci unisce. È importante che le diverse par­ti di una città siano ben integrate e che gli abitan­ti possano avere una visione d’insieme invece di rinchiudersi in un quartiere, rinunciando a vivere la città intera come uno spazio proprio condiviso con gli altri. Ogni intervento nel paesaggio urba­no o rurale dovrebbe considerare come i diversi elementi del luogo formino un tutto che è perce­pito dagli abitanti come un quadro coerente con la sua ricchezza di significati. In tal modo gli altri cessano di essere estranei e li si può percepire come parte di un “noi” che costruiamo insieme.

Se in un determina­to luogo si sono già sviluppati agglomerati caotici di case precarie, si tratta anzitutto di urbanizzare tali quartieri, non di sradicarne ed espellerne gli abitanti. Quando i poveri vivono in sobborghi inquinati o in agglomerati pericolosi, «nel caso si debba procedere al loro trasferimento e per non aggiungere sofferenza a sofferenza, è necessario fornire un’adeguata e previa informazione, offri­re alternative di alloggi dignitosi e coinvolgere di­rettamente gli interessati». Nello stesso tempo, la creatività dovrebbe portare ad integrare i quar­tieri disagiati all’interno di una città accogliente. «Come sono belle le città che superano la sfidu­cia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di svilup­po.

Molti specia­listi concordano sulla necessità di dare priorità ai trasporti pubblici. Tuttavia alcune misure ne­cessarie difficilmente saranno accettate in modo pacifico dalla società senza un miglioramento sostanziale di tali trasporti, che in molte città comporta un trattamento indegno delle persone a causa dell’affollamento, della scomodità o della scarsa frequenza dei servizi e dell’insicurezza.

Che tipo di mondo desideriamo trasmet­tere a coloro che verranno dopo di noi, ai bam­bini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parzia­le. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecolo­giche possano ottenere effetti importanti.

Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Po­tremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia. Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha supe­rato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni.

Per affrontare i problemi di fondo, che non possono essere risolti da azioni di singoli Paesi, si rende indispensabi­le un consenso mondiale che porti, ad esempio, a programmare un’agricoltura sostenibile e di­versificata, a sviluppare forme rinnovabili e poco inquinanti di energia, a incentivare una maggiore efficienza energetica, a promuovere una gestione più adeguata delle risorse forestali e marine, ad as­sicurare a tutti l’accesso all’acqua potabile.

Riguardo alla cura per la diversità biologica e la desertificazione, i progressi sono stati molto meno significativi. Per quanto attiene ai cambia­menti climatici, i progressi sono deplorevolmen­te molto scarsi. La riduzione dei gas serra richie­de onestà, coraggio e responsabilità, soprattutto da parte dei Paesi più potenti e più inquinanti.

Menzioniamo anche il sistema di governance degli oceani. Infatti, benché vi siano state diverse convenzioni internazionali e regionali, la fram­mentazione e l’assenza di severi meccanismi di regolamentazione, controllo e sanzione finisco­no con il minare tutti gli sforzi. Il crescente pro­blema dei rifiuti marini e della protezione delle aree marine al di là delle frontiere nazionali con­tinua a rappresentare una sfida speciale. In defini­tiva, abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali.

Abbiamo bisogno di una reazione glo­bale più responsabile, che implica affrontare con­temporaneamente la riduzione dell’inquinamen­to e lo sviluppo dei Paesi e delle regioni povere. Il XXI secolo, mentre mantiene una governance pro­pria di epoche passate, assiste ad una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politi­ca. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i go­verni nazionali e dotate del potere di sanzionare.

In alcuni luoghi, si stanno sviluppando cooperative per lo sfruttamento delle energie rin­novabili che consentono l’autosufficienza locale e persino la vendita della produzione in ecces­so. Questo semplice esempio indica che, mentre l’ordine mondiale esistente si mostra impotente ad assumere responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza. È lì infatti che possono nasce­re una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra, come pure il pensare a quello che si lascia ai figli e ai nipoti.

È possibile favori­re il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazio­nale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione co­munitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!

I risultati richiedono molto tempo e comporta­no costi immediati con effetti che non potranno essere esibiti nel periodo di vita di un governo. Per questo, senza la pressione della popolazione e delle istituzioni, ci saranno sempre resistenze ad intervenire, ancor più quando ci siano urgen­ze da risolvere.

La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamenta­zione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo.

È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pen­sare agli effetti ambientali che lascerà alle pros­sime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rige­nerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’interven­to umano.

Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la ren­dita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Sempli­cemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non la­scia un mondo migliore e una qualità di vita in­tegralmente superiore, non può considerarsi pro­gresso.

Abbiamo bisogno di una politica che pen­si con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dia­logo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche.

La maggior parte degli abitanti del pia­neta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla dife­sa dei poveri, alla costruzione di una rete di ri­spetto e di fraternità. È indispensabile anche un dialogo tra le stesse scienze, dato che ognuna è solita chiudersi nei limiti del proprio linguaggio, e la specializzazione tende a diventare isolamen­to e assolutizzazione del proprio sapere. Questo impedisce di affrontare in modo adeguato i pro­blemi dell’ambiente.

Un cambiamento negli stili di vita potreb­be arrivare ad esercitare una sana pressione su co­loro che detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi».

Solamente partendo dal coltivare solide virtù è possibile la donazione di sé in un impegno eco­logico. Se una persona, benché le proprie con­dizioni economiche le permettano di consumare e spendere di più, abitualmente si copre un po’ invece di accendere il riscaldamento, ciò suppone che abbia acquisito convinzioni e modi di sentire favorevoli alla cura dell’ambiente. È molto no­bile assumere il compito di avere cura del creato con piccole azioni quotidiane, ed è meraviglioso che l’educazione sia capace di motivarle fino a dar forma ad uno stile di vita. L’educazione alla responsabilità ambientale può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evita­re l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegne­re le luci inutili, e così via. Tutto ciò fa parte di una creatività generosa e dignitosa, che mostra il meglio dell’essere umano. Riutilizzare qualco­sa invece di disfarsene rapidamente, partendo da motivazioni profonde, può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità.

Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così immense che le pos­sibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non sa­ranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una unità di contribuzioni». La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria.

Un’espressione di questo atteggiamento è fermarsi a ringraziare Dio prima e dopo i pasti. Propongo ai credenti che riprendano questa preziosa abitudine e la vivano con profondità. Tale momento della benedizione, anche se molto breve, ci ricorda il nostro dipendere da Dio per la vita, fortifica il nostro senso di gratitudine per i doni della creazione, è riconoscente verso quelli che con il loro lavoro forniscono questi beni, e rafforza la solidarietà con i più bisognosi.

Non tutti sono chiamati a lavorare in ma­niera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazio­ni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abban­donato, un paesaggio, una piazza), per protegge­re, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recupe­rano legami e sorge un nuovo tessuto sociale lo­cale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica.

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