Lunedì, 03 Gennaio 2005 13:45

Ricordiamo Eugenio Garin

Scritto da  Gerardo

Il filosofo Eugenio Garin in un foto di repertorio
Nelle pagine collegate a questa pubblichiamo alcuni contributi, che ci sono giunti a seguito della recente scomparsa del grande filosofo italiano o che avevamo nei nostri archivi.

Intervista a Garin - dal n. 2 di Religioni e Società (1986)

Il ricordo di Garin - di Eugen Galasso

Una memoria - di Pietro De Marco

Nei prossimi giorni, continueremo a raccogliere e pubblicare gli altri interventi dei quali ci è stata fatta promessa.

Stay tuned!
L'intervista a Garin
In questa occasione abbiamo ritenuto di far cosa gradita alla Community mettendo a disposizione l'intervista a Garin che fu fatta da Arnaldo Nesti e Pietro De Marco e che comparve nel secondo numero di Religioni e Società. Tale numero, a causa di alcuni disguidi con l'Editore di allora, fu stampato in pochi esemplari e crediamo perciò di far cosa anche più utile nel ripubblicare questo prezioso documento.
L'intervista può essere scaricata da qui (ovvero dalla sezione Download di questo sito).


Il ricordo di Garin - di Eugen Galasso
Ricordare Eugenio Garin: un compito improbo, anche se, per fortuna, nel prisma infinito delle possibilità, vi sono sfaccettature meramente impressionistiche. Ecco allora che a me, diciannovenne, "matricola" di filosofia, "secchione" inveterato per desiderio e per "caso", Garin intellettuale "enorme" incuteva vero e proprio timore: non tanto l'eventuale "punizione" all'esame, ma l'idea di essere gentilmente convocato alla cattedra, da lui, socratico mai arcigno, e dover rispondere al fatidico "Mi dica, mio giovane amico..." faceva scattare un "riflesso condizionato" tale da farmi barricare - trascurando del tutto il ruolo positivo, a livello sia didattico sia gnoseologico, dell'errore - in fondo all'aula, nascondendomi - cosa non difficile - dietro studenti e studentesse più alti/e.In realtà, Garin era persona di grande umanità, che, vero "homo universalis" rinascimentale/post-rinascimentale, sapeva riflettere "umanamente" sul dolore e la bellezza, il "transito" dell'esistenza. In lui l'erudizione si accompagnava alla rielaborazione culturale originalissima, la "mathesis universalis" includeva il rapporto tra storia della cultura e storia della scienza(e in questo era ormai, in tempi "non sospetti", assolutamente anti-crociano), il rapporto filosofia-politica non finiva mai in demagogia e retorica propagandistica.Scrivo queste righe quando, dal punto di vista del pensiero, sono stato segnato da Foucault, Deleuze e, a ridosso della morte di un'altra grande, Susan Sontag, quando il tritacarne orrendo della "macchina informativa" con la sospetta proposta di una più che sospetta solidarietà internazionale anti-catastrofi fa passare tutto (compresa la morte di Sontag e Garin) in ultima pagina o quasi.

Ebbene, di Garin, rimane la lezione del rigore (filologico ma non solo), la "prudenza" o comunque la diffidenza rispetto alle generalizzazioni improvvide/troppo facili (ricordo di aver criticato, non molto tempo fa, in un breve scritto, la liquidazione di Julius Evola in una noticina della "Cronache di filosofia italiana", ma, ripensandoci, la diffidenza gariniana rispetto alle generalizzazioni evoliane a livello filologico ma anche storico, per es. nel "Mistero del Graal" è più che giustificata) e, anche nella differenza nelle opzioni esistenziali di fondo e non solo (per es.in campo religioso) rimane il rispetto per un laicista che non fu mai aprioristicamente e irridentemente anti-religioso, che, sulle orme di Gramsci (di un Gramsci riletto criticamente, inutile aggiungerlo), sapeva valutare l'incidenza del fattore R nello ieri, nell'oggi, nel domani. (Eugen Galasso)


Una memoria - di Pietro De Marco
Nel rispondermi affettuosamente agli auguri per i suoi settant'anni Eugenio Garin aggiungeva (15.5.1979): «Per me si chiude un periodo importante della mia vita, il più importante. Adesso conviene ricordare e riflettere». Ma sappiamo quanto piena sia rimasta per quasi un altro quarto di secolo da allora la vitalità intellettuale e scientifica del Maestro; tale la presenza di un genitore che continua ad affiancarci, naturaliter, indefinita-mente. Così la morte che arriva sorprende. Nel gennaio di quello stesso anno mi aveva scritto: «Spero anch'io che qualche volta ci incontriamo e discorriamo, come allora…» (con gli auguri gli avevo ricordato le tante volte che in anni lontani mi ero permesso di accompagnarlo verso casa, di-scorrendo…); aggiunsi a matita, allora, vicino alle sue parole: "caro e vene-rato biglietto". Perdonerà il lettore questa commossa memoria che solo pri-vata non è, come cercherò di spiegare. Da sempre, nel parlare di lui (da quasi quarantacinque anni ci conoscevamo) mi urge dire che l'uomo pub-blico Garin, e intendo con questo il conferenziere, il (rado) pubblicista, il polemista, il laico (che pure incantò per qualche tempo il suo giovane allie-vo cattolico "critico"), l'uomo che affiora negli anni dalle interviste, anche il professore dalle lezioni alte e vibrate, dell’apprezzamento tagliente, era solo un volto di Eugenio Garin.
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A parte il magistrale professore, all'uomo pubblico ho preferito presto il Maestro quale si rivelava nel lavoro seminariale, negli scambi a fine lezio-ne o, fianco a fianco, agli schedari della biblioteca di Lettere in piazza San Marco, nelle occasionali passeggiate, nel rado scambio epistolare. Alla li-nearità comunque programmatica più che consuntiva, come Garin ha detto spesso, di certe tesi e qualche testo remoto (il troppo menzionato "umanesimo civile" come il sempre citato, talora in solitudine quasi non ne esistessero altri, volume del 1952, L'umanesimo italiano) la grandezza di Garin negli studi a livello mondiale risiede nella capacità di sguardo sul campo intellettuale totale nella sua complessità e reticolarità; questo e-sige intuizione e accertamento (nel Maestro l'influenza di Dilthey si coniuga alla filologia). Garin è e resta specialmente grande - per certi versi uni-co, a mio parere - quando indica e insegna a cogliere i più "fronti" (un termine a lui caro) cui il lavoro intellettuale attinge e su cui si dispone. Fronti pratici e speculativi, vitalmente contingenti e di secolare strutturazione.

Sempre, nella ricostruzione gariniana, le pagine del filosofo appaiono (come sono) allineate non entro una "scuola" ma sul terreno che di volta in volta lo accomuna a quanti altri vi si trovano e vi si cimentano anche con strumenti diversi e opposte istanze. Apro casualmente il sansoniano La cultura filofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti (1961). Leggo: «i temi ermetici dell'uomo divino e del logos rivelatore serpeggiano dal Salutati al Manetti, che li attinge largamente a Lattanzio, ma s'impongono con una fortuna mirabile dopo la versione ficiniana del Pimandro che, unitamente all'Asclepio, viene esercitando un'influenza larghissima. (…) Perfino nel Protesto di Pier Filippo Pandolfini del 13 luglio 1475 noi troviamo che Ermete ha sostituito le sue sacre testimonianze a quelle consuete di Aristotele e san Tommaso» (p.138). Solo suggestivo? Anzi, una mappa esatta e difficile. Mi disse Michel De Certeau una volta (gli avevo spedito diverse cose del Maestro): quanti spunti! peccato che Garin non approfondisca. No. È che bisogna essere sul terreno di ricerca, e pensarlo come un plesso multiforme, per cogliere quanto sia sensitiva questa scrittura, frutto di letture dirette e di infiniti spogli (in gran parte manoscritti) in tutte le direzioni - come raramente lo storico della filosofia faceva e tende tutt'ora a fare. E quanta letteratura "eterodossa" per un filosofo laico: solo per questa frase, dal Corpus hermeticum, le sue edizioni, la sua letteratura critica, ai Padri della chiesa, dal testo tomasiano alle ricerche di Aby Warburg e dei suoi successori (qualche autorevole collega non gli ha mai perdonato di aver dedicato tanto tempo allo studio di magia e astrologia rinascimentale; Carlo Gin-zburg dedico una aggressiva ragazzata alle pagine di Garin su Fritz Saxl), oltre - va da sé - Ficino, Pico, le cerchie fiorentine.

Longitudinalità e trasversalità di lettura, dunque, e una eccezionale sapienza nella ricerca che oggi si chiama di "intertestualità". Al servizio di quale progetto? Garin ha risposto: «intrecciare la lotta delle idee e la vicenda degli uomini». Ineccepibile come istanza, vero come risultato (Garin amava ricordare la sua splendida prova di biografia intellettuale posta ad introduzione dell'edizione laterziana di Cartesio); eppure la formula ("lotta", "vicenda") si presta ad una riduttiva lettura e non mi entusiasma.
In realtà (e lo si può lamentare) per cogliere il patrimonio di risultati consegnati alle pagine di Garin si deve essere ben attrezzati alla ponderazione delle formule, alle risorse dello stile (ma questo vale per gli altri grandissimi di quella stagione fiorentina, per Devoto, Longhi, Cantimori, Contini, per molti): un avverbio suppone il risultato di moltissimi spogli e ponderazioni. E voglio sottolineare un'altra dimensione: in Garin la genia-lità della ricerca rinvia ad una complexio formativa che proviene da lontano, si dirama per l'Europa. Nell'importante profilo che pubblicò sulla rivista fiorentina «Iride» (1989/2), la mappa stessa dei suoi studi negli anni Venti ne offre la chiave. Quel "legger di tutto", entro e ben oltre il perimetro di maestri solidi ma non eccelsi (se si eccettua il grande Pasquali, filologo classico), il mettersi alla scuola dell'anticrociano De Sarlo e del "sociologo" Limentani; poi eleggere per la tesi i Fifteen Sermons di Joseph Butler, un grande scrittore religioso anglicano del primo Settecento, procedere (anni Trenta) alla scoperta del Cassirer warburghiano e dell'ambiente del Warburg, fino alla dedizione per Giovanni Pico; e il colloquio precoce con l'heideggeriano Ernesto Grassi, l'incontro con Gentile, la capacità e volontà di leggere lo Husserl della Krisis e il grande lavoro di Marcel Bataillon sulla penetrazione di Erasmo nella cultura e religiosità spagnola, il dotare (aggiungo io) la Biblioteca filosofica (di cui sarà più tardi segretario) di tanti libri che a Firenze mancavano, tra cui l'Al-Hallaj di Louis Massignon, il massimo specialista cristiano di mistica islamica. E magari Blondel. Tracce sintomatiche.

Vi è in esse cifra e progetto intellettuale (poi risolto in una produzione copiosisima e creativa), e grandezza di magistero. E vi è umanità attenta, pensosa: ecco quel "ora conviene ricordare e riflettere" dei suoi settant'anni. Mi sapeva credente e praticante, era attentissimo nel seguirmi e quasi anticiparmi in indicazioni di lettura, di tematiche congeniali. Senza suo sforzo, poiché ambivo alla sua cifra di lavoro. Accettò, con rammarico eppure apprezzandola, la mia scelta di lasciare Firenze e il suo magistero, per perfezionare gli studi religiosi altrove. Continuò dopo a seguirmi con affetto.
Dichiaro spesso che Eugenio Garin mi ha insegnato tutto, l'attenzione al testo come l'interesse alla tesi antropologica, la questione critica dei Presocratici e l'inestricabile mappa del Novecento filosofico, Gilson e Marcel Mauss, la opportunità della conoscenza del grande scolastico del XVII secolo accanto a Cartesio o Spinoza, le questioni di storia antica sollevate da
Arnaldo Momigliano e la teologia ebraica medievale. Bastava partire da lì. Posso osare rimproverargli, oggi (ma sarebbe un adeguato "comprendere"?), quel suo non lasciar trasparire nell'intellettuale pubblico e "politico" la molteplicità di voci e di fonti che era capace di ascoltare, ovvero la sua personale complessità e problematicità, la sua paternità più inclusiva della sua politicità, del suo apparire? (Pietro De Marco)
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