Giovedì, 29 Novembre 2012 16:29

Perché il crescente divario fra povero e ricco è negativo per tutti

Scritto da  Gerardo

Da Luigi De Paoli riceviamo la traduzione, a cura di José F. Padova, di un’intervista a Richard Wilkinson, le cui ricerche sulle conseguenze della diseguaglianze sono fondamentali.






Quanto più una società ricca è diseguale, tanto più grandi sono i suoi problemi sociali
Intervista a Richard Wilkinson (traduzione dal tedesco di José F. Padova)

Die Zeit: Signor Wilkinson, a suo avviso l’ineguaglianza è la causa prima di quasi tutti i problemi di carattere sociale negli Stati industriali benestanti. Perché?
Richard Wilkinson: In questo campo le statistiche sono univoche. Quanto più profonde sono le differenze fra povero e ricco, tanto maggiori sono anche i problemi sociali: sia che si tratti di criminalità, violenza, abuso di droghe, gravidanze in età minorile, cattivo stato della salute, obesità, grado d’istruzione o aspettativa di vita: dovunque si dimostra che gli Stati «diseguali» stanno essenzialmente peggio. E non solamente un poco peggio. In altre parole: nelle nazioni industriali dell’Occidente, in cui il divario fra povero e ricco è meno accentuato, vi sono fino a sei volte meno omicidi. E fino a dieci volte meno persone si trovano nelle prigioni.

D.Z.: Quali Stati stanno peggio?
R.W.: In ogni Stato i criteri di giudizio sono i redditi del 20 percento più ricco e più povero. La differenza nei Paesi con maggiore frattura sociale è circa il doppio più elevata di quelli con disuguaglianza più bassa. Per quanto riguarda la ineguaglianza e i relativi problemi sociali si distinguono in peggio gli USA, la Gran Bretagna e il Portogallo. In meglio il Giappone e gli Stati scandinavi. La Germania si trova per lo più nel mezzo.

Zeit: E i Paesi più livellati hanno veramente sempre e in ogni caso meno problemi?
Wilkinson: abbiamo analizzato dozzine di studi, tutti usano il medesimo linguaggio: generalmenteun’imponente disuguaglianza rende del tutto disfunzionale una società. Senza eccezioni.

Zeit: Come si arriva a questo?
Wilkinson: Vi è, per esempio, una relazione fra ineguaglianza e istruzione – e quindi con le chance di ascesa sociale. L’anello di congiunzione è lo Stato sociale. Per chiarire ciò servono modelli di economia politica ma non soltanto. Si devono prendere in considerazione anche le conseguenze psicosociali della disuguaglianza. Le persone reagiscono con molta sensibilità, confrontano loro stesse e il loro status con gli altri. Per prima cosa l’ineguaglianza materiale porta a ansietà per il proprio status…

Zeit: … Ma che cosa ha a che fare l’ansia dei genitori per il proprio status sociale con le chance di istruzione/formazione dei figli?
Wilkinson: Sovente i genitori trasmettono inconsapevolmente ai figli le proprie ansie. Viviamo in una società nella quale la cooperazione conta meno e nella quale il mettersi in mostra el’autostima delle persone si basa soprattutto sul successo materiale. I bambini se ne rendono conto naturalmente. L’ansia per la propria condizione sociale viene messa loro nella culla, per così dire, e influenza così anche i valori e la qualità delle loro relazioni sociali. Nelle società ineguali domina minore fiducia, meno coesione sociale. Allo stesso tempo cresce la tendenza a maggiore violenza. E ovviamente tutto ciò condiziona anche le possibilità di formazione e istruzione dei bambini.

Zeit: La società ne porta anche la colpa?
Wilkinson: Esatto. La disuguaglianza provoca ai genitori problemi di status e i bambini ne partecipano.

Zeit: Dov’è qui la responsabilità individuale? L’obesità ha anche qualcosa a che fare con il fatto che ci si nutre di hamburger e patatine fritte!
Wilkinson: Sbagliato. L’epidemiologia sociale ha dimostrato che la cattiva qualità delle nostre relazioni sociali è la causa principale dei sintomi dello stress cronico. Le persone sotto stress tuttavia mangiano per sentirsi bene e sovente mangiano cibi con alto contenuto di grassi. Oltre a ciò si sa grazie alla ricerca che lo stress e l’ansia della prima infanzia hanno conseguenze sul peso corporeo.

Zeit: Fanno eccezione i più ricchi fra i Paesi ricchi? Vi è un rapporto fra benessere e problemi sociali?
Wilkinson: No. Prendete a esempio l’aspettativa di vita: benché il reddito pro capite negli Stati Uniti o in Norvegia sia molto più alto che in Grecia o Portogallo, non vi sono grandi differenze. In modo simile avviene per gli altri indicatori sociali sui quali abbiamo fatto ricerca.

Zeit: Questo significa che a partire da un determinato livello i redditi che assicurano benessere perdono d’importanza?
Wilkinson: Si, è proprio così. Credo che nelle ricche società dell’Occidente la crescita dell’economia, ovvero il miglioramento dell’agiatezza materiale, da sola non porta alcun miglioramento.

Zeit: Questo non porterà disagio alla classe media, che infatti ritiene che la disuguaglianza non la riguardi.
Wilkinson: Qui la classe media si sbaglia. La situazione sociale nei Paesi ad alto tasso di ineguaglianza è per questi motivi molto più negativa, perché non soltanto i poveri ne sono coinvolti. Nei Paesi più ugualitari circa l’otto percento della popolazione soffre di malattie psichiche, negli USA al contrario si arriva a un buon 25 percento! Naturalmente i problemi sociali sono particolarmente virulenti negli strati sociali inferiori. Ma nei Paesi con maggiori ineguaglianze essi si infiltrano in misura crescente anche nei ceti medi. A lunga scadenza e in media a un bambino del ceto medio in Scandinavia o in Giappone le cose andranno meglio che a un bambino degli Stati Uniti o della Gran Bretagna. Questo bambino non sarà dipendente da droghe, non sarà vittima di un crimine e avrà anche molte migliori chance di meglio distinguersi a scuola.

Zeit: Ancora: l’ineguaglianza è veramente la causa determinante di tutti i problemi sociali? Per esempio, non è forse peculiare che i Paesi con più alto tasso di ineguaglianze siano allo stesso tempo anche quelli con un’alta quota di immigrati?
Wilkinson: Non è per niente vero! La Svezia e gli Stati Uniti hanno circa la stessa quota di cittadini nati all’estero. E numerosi studi hanno stabilito che in una società non vi è alcun rapporto fra la mescolanza etnica e il grado di disuguaglianza.

Zeit: Gli economisti dicono anche che la disuguaglianza fa avanzare una società, perché mette in moto innovazione, competizione e crescita.
Wilkinson: È pur vero che in Paesi, i quali si sviluppano al proprio interno, l’ineguaglianza può agire transitoriamente in modo positivo. Ma nelle nazioni industriali altamente sviluppate, come mostrano le nostre statistiche, tutto ciò non vale più. Pur essendo questo un piccolo riferimento: se la disuguaglianza rafforzasse la forza innovativa di un Paese, nei Paesi con grande divario fra ricco e povero dovrebbero a esempio essere registrati pro capite più brevetti che nei Paesi con più eguaglianza. Però non è questo il caso.

Zeit: Anche in Germania cresce la frattura fra povero e ricco. La politica dà per scontato che ciò abbia origine dai mutamenti della tecnica e dalla globalizzazione. Non è vero, a grandi linee?
Wilkinson: Credo che con una simile opinione la politica tedesca si renda le cose molto più facili. In ogni caso il Premio Nobel americano Paul Krugman è, come sono io, dell’avviso che della crescente ineguaglianza sia decisamente responsabile la politica. In fondo in tutte le nazioni industrializzate dell’Occidente i primi decenni del dopoguerra sono stati improntati da una crescente uguaglianza [sociale]. La svolta è avvenuta dapprima negli anni ’80 con la politica di liberalizzazioni di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher. E dopo la riunificazione in Germania si è seguito più o meno lo stesso modello.

Zeit: La politica, se è responsabile della disuguaglianza, può provvedere di nuovo a introdurre più equità?
Wilkinson: Lo deve fare! Al più tardi dall’inizio della crisi finanziaria la maggior parte delle persone sa che così non si può più andare avanti. La gente avverte che le nostre società sono diventate più dure, intransigenti e asociali. Le persone sono arrabbiate per la ricchezza materiale dei pochi e i problemi sociali dei molti. Sanno che una vita migliore dipende in primo luogo dalla qualità dei rapporti sociali. E questi ultimi possono essere resi migliori soltanto se si smantellano i divari fra i redditi.

Zeit: In concreto che cosa dovrebbe fare la politica?
Wilkinson: L’uguaglianza è un progetto a lungo termine, per il quale non si tratta solamente del problema della redistribuzione. La Svezia la fa con le imposte, in Giappone le diversità fra i redditi non sono così grandi. Tuttavia si deve anche rafforzare la democrazia economica, a grandi linee mediante le organizzazioni sindacali e una maggiore partecipazione oppure con più investimenti per il buy-out di imprese da parte dei loro collaboratori. Se con maggiore cogestione un’impresa si trasforma in una comunità, anche la produttività cresce. Questo lo sappiamo già.

Zeit: Vale ancora la pena di mettere denaro nella lotta per i singoli problemi sociali, se non si affronta il male di fondo costituito dalla ineguaglianza?
Wilkinson: Da una parte vi sono – specialmente negli Stati senza uguaglianza – punti focali di carattere sociale nei quali la coesione sociale è totalmente andata in pezzi. Lì lo Stato sociale deve intervenire direttamente. Per i problemi della violenza e dell’abuso di droghe, per esempio, deve intervenire tempestivamente in favore dell’assistenza e della cura dei bambini. Ma se la politica non affronta tutti i problemi alle radici, nulla cambierà fondamentalmente e a lungo andare tutto ciò diventerà alquanto dispendioso e inefficiente. Quindi come società civile dobbiamo porci la domanda fondamentale: se vogliamo veramente vivere secondo il principio che il più forte si prende quasi tutto e il più debole resta indietro. La disuguaglianza divide una società civile e la tritura. Credo che abbiamo bisogno di maggiore cooperazione e reciprocità. Le persone vogliono una maggiore uguaglianza sociale.


Testo originale su www.zeit.de


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