Giovedì, 21 Luglio 2005 19:38

Su Aldo Moro

Scritto da  Gerardo

Da una breve introduzione al contesto storico, prende avvio l'intervista in cui Corghi ricorda la figura di uno dei più importanti personaggi della storia della DC.
Il 26 gennaio 1959 si era dimesso il governo Fanfani, che continuerà ad attendere con tenacia un centrosinistra organico con ‘avallo’ dei socialisti.
In attesa delle decisioni del Capo dello Stato, diede anche le dimissioni da segretario politico della DC, per evitare l’accusa di personalizzazione.
Nel luglio 1957 il Consiglio nazionale DC si era riunito a Vallombrosa con una relazione di Fanfani sulla fine del neocentrismo e sul possibile dialogo con i socialisti con la mediazione socialdemocratica. La strategia di Fanfani era quella di sostegno alla prospettiva di unificazione socialista su base democratica. La maggioranza di “Iniziativa Democratica” non accettò quella impostazione.

Nacquero così, via via, i dorotei, e gli amici di Fanfani si trovarono nella corrente di “Nuove Cronache”. Per volontà dei dorotei venne eletto segretario della DC Aldo Moro. Fu riconfermato dal congresso di Firenze dove il suo intervento riportò un notevole successo anche perché il tema dell’apertura ai socialisti era divenuto, nella logica del gradualismo, meno fumoso. Ricordando quegli anni mi permetto di indicare che nel novembre 1950 anch’io venivo eletto membro della direzione centrale del partito per una particolare pressione di Fanfani.
Uno dei primi problemi che dovemmo affrontare fu la scissione milazziana in Sicilia e il conseguente dominio di Milazzo nell’assemblea della Regione. Quando entrò in crisi la giunta regionale presieduta dall’on. La Loggia (DC), il partito impose la candidatura di Lo Giudice, ma una coalizione di cristiano-sociali (espressione del nuovo partito fondato da Milazzo e Pignatone), di comunisti, di socialisti, di monarchici, di missini, con un gruppo di democristiani, elesse Milazzo alla presidenza, il 24 ottobre 1958. Due giorni dopo la DC regionale decretò l’espulsione dei deputati regionali Battaglia, Corrao e Messineo. I cristiano-sociali erano allo stesso tempo usciti dalla DC per un’affermazione di totale autonomia politica dell’isola, ritenendosi fedeli all’ispirazione dell’autonomismo sturziano. L’autonomismo, peraltro, era radicato non solo in Sicilia ma anche nella Valle d’Aosta con l’union Valdotaine.

Nel giugno 1959, nelle elezioni regionali, i cristiano sociali ottenevano ben nove seggi. Nella riunione direzionale del partito venne comunicato che era in atto un tentativo tramite Milazzo di coinvolgere la DC per un governo regionale con il contributo dei socialisti.
Moro non sembrò contrario ad una simile ipotesi, ma le contraddizioni interne della DC regionale, le pressioni dei gruppi economici come Italcementi, Fiat, Eni e le pressioni della gerarchia ecclesiastica portarono infine al centrodestra presieduto dal barone Majorana della Nicchiara. L’incontro con i socialisti che doveva maturare, per Fanfani e per Moro, con l’unificazione con la socialdemocrazia di Saragat, avrebbe portato alla convergenza tra il mondo del lavoro cattolico e quello socialista irrobustendo la democrazia italiana. Ma ciò presupponeva la compattezza dei partiti, cosa molto complessa.

Nesti
A questo riguardo mi pare importante soffermarsi sulla situazione politica come tu potesti osservare stando dentro la direzione centrale del partito. In particolare, come è che si arrivò al governo Tambroni? Quale il ruolo di Gronchi?

Corghi
Devo dire che il tema dei rapporti coi socialisti fu dominante. Tengo però a fare alcune utili annotazioni circa persone e situazioni che potei conoscere da vicino. Innanzitutto l’On. Moro che era stato presidente della FUCI con accanto Montini alla fine degli anni trenta. Costituente fu consonante con Dossetti ma non fu dossettiano. Docente di Diritto penale nella sua Bari, fu prima vice ministro al ministero degli esteri dal 1948 al 1950. Presidente del gruppo DC alla Camera dei Deputati con un partito forte del 40%. Ministro guardasigilli nel governo Segni (1955-57) poi alla P.I. con Zoli (1957-1958). Avrò modo di seguire le posizioni di Moro nella fase antecedente la formazione del Centro Sinistra. Va ricordato che il 21 gennaio 1960 l’opposizione degli scelbiani e dei più intransigenti dorotei tentò di far naufragare il progetto di una lista unitaria per la direzione del gruppo DC alla Camera, estromettendo le correnti di sinistra, ma in sede di votazione i dorotei fecero fallire il disegno. Al termine della riunione direzionale, nella notte del 18 febbraio con Donat Cattin, accompagnai il senatore Zoli, presidente del Consiglio nazionale, all’albero Minerva che lo ospitava. Nell’atrio si unì l’On.Granelli e potemmo fare un riepilogo delle manovre siciliane. Poche ore dopo Zoli verrà stroncato da un infarto. Lo seppellimmo nel suo paese, Predappio, non lontano dalla tomba di Mussolini i cui resti egli aveva fatto restituire alla famiglia, senza sollevare clamore.
In quel periodo mi trovai accanto ai cristiano-sociali all’omaggio reso in Senato a don Sturzo, dopo la sua morte.
Il 21 febbraio la direzione prese atto della decisione del PLI di togliere la fiducia al Governo Segni. Dopo molte giornate la direzione si orientò verso la convergenza della DC col PSDI e il PRI, al cui congresso avevo partecipato in rappresentanza del partito. Sul presidente incaricato di formare il governo furono esercitate pesanti pressioni da parte di vescovi. Scelba minacciò la nascita di un secondo partito cattolico qualora fosse andata in porto l’operazione del centrosinistra. Opposizioni furono esercitate dai Coltivatori diretti di Bonomi ed anche da parte dei dorotei. Eletto Papa, Giovanni XXIII lasciava all’autonomia della Cei, presieduta dal Card. Siri, di intervenire nella politica italiana. Segni si decise, in tale situazione a rinunciare all’incarico. Gronchi convocò Tambroni. Il 23 marzo 1960 la direzione si riunì col presidente designato. Non approvai con Donat Cattin il documento conclusivo che non chiariva adeguatamente le ragioni dell’abbandono di Segni di formare il tripartito di centrosinistra. Nella stessa giornata ebbi un colloquio con l’On. Fanfani che non disapprovò la mia astensione dal voto in direzione.
Come è noto il governo Tambroni, monocolore, ebbe oltre i voti DC, quelli dei missini e dei monarchici. Si dimisero subito dal governo Bo e Pastore. L’11 aprile la decisione direzionale fu di aprire la crisi. Così Tambroni convocò il governo per aprire nuovamente la crisi e si recò al Quirinale per rimettere il mandato.
Gronchi allora invitò Fanfani a formare il governo. Fra varie riunioni della direzione Fanfani riferì sulle consultazioni e sulla disponibilità del PSDI e del PRI. Per Fanfani però il tripartito era una scelta che non permetteva alcuna indisciplina. “In una fame di cauta sperimentazione sarebbe un delitto trattare oggi col PSI. Quanto meno pretendiamo di coprirci sotto il manto delle autorità ecclesiastiche tanto meglio faremo perché così rivendichiamo la responsabilità del nostro servizio civile… Se i socialisti si asterranno sul governo per loro autonoma decisione ne prenderemo atto; sprangare loro la porta sarebbe un errore di portata storica”. Il giorno successivo ebbi un colloquio col nuovo presidente generale dell’Azione Cattolica, il dr. Maltarello nominato in sostituzione di Gedda, occupato completamente dai Comitati Civici. Maltarello ebbe apprezzamento per le posizioni di Fanfani e di Moro, ma ritenne non sufficientemente matura la situazione di un allargamento a sinistra. Nel frattempo aumentava la minaccia dei franchi tiratori all’interno della DC. Di fronte a questa situazione Fanfani deve rinunciare alla proposta di formare il governo. Gronchi subito invita Tambroni a proseguire l’iter parlamentare, presentando il governo al Senato. Moro si vide costretto dalla situazione ad accettare il governo Tambroni come puramente amministrativo e di durata limitata. Mentre inizia la cosiddetta tregua, con una politica di ribasso dei prezzi, precipita la popolarità dei presidente Gronchi, al di sotto lei livelli di guardia. Il 18 maggio peraltro l’“0ssrvatore Romano” pubblica un articolo dal titolo “Punti fermi” dominato dalla opposizione all’apertura a sinistra e tendente indirettamente a rafforzare il governo Tambroni. Si attribuì lo scritto al Card. Siri, presidente dei Vescovi italiani.

Nesti
Fu effettivamente quello un momento nevralgico. Siri contro ogni politica di centrosinistra. All’interno della DC lacerazioni e minacce di scissioni. E Moro?

Corghi
Effettivamente nonostante le posizioni intransigenti di Siri, a Milano il Card. Montini non condannò l’apertura a sinistra come principio, ma valutando la concreta situazione si riservò di riprendere la questione sul piano storico. Ho sempre pensato che ci fosse una consonanza di metodo nel procrastinare e attutire l’urto di scelte ardue, con un senso di angoscia interiore, fra Montini e Moro. Il 26 maggio iniziò la più lunga tornata del consiglio nazionale nella storia del partito. Durò sei giorni. In sostituzione di Zoli venne eletto presidente del consiglio nazionale il sen. Piccioni. Dopo l’ampio dibattito e il tentativo doroteo di far dimettere Moro, reo di non aver sostenuto Segni, e la espulsione dei rappresentanti della sinistra dalla direzione del partito, tentativi peraltro falliti, mi unisco ai rappresentanti delle correnti di sinistra, astenendomi dal voto sulla ratifica del governo Tambroni.

Nesti
Le riunioni della direzione alla Camilluccia ebbero ulteriori momenti di tensione

Corghi
Sì effettivamente. Innanzi tutto si dovette affrontare la situazione di crisi della Regione Trentino Alto Adige, in particolare la proposta parlamentare che prevedeva l’introduzione della proporzionale nei consigli provinciali. Ma quando Tambroni acconsente che a Genova si svolga il congresso del MSI, si coagula l’antifascismo e si ebbero manifestazioni di reazioni in piazza, la direzione si riunisce per far fronte all’aggravarsi della situazione. Nel comunicato conclusivo Moro accoglie la mia proposta di fedeltà della DC ai valori della Resistenza. Il giorno successivo mentre mi trovavo in una riunione al Ministero della Sanità, Moro mi fece avvertire che erano avvenuti fatti gravi a Reggio Emilia e mi invitava a partire subito per rientrare in città.

Nesti
Sui morti di Reggio Emilia si è molto scritto e a tutti è nota la canzone. Quale fu la decisione che prendesti appena arrivato a Reggio?

Corghi
Presi l’iniziativa di partecipare ai funerali dopo l’impegno dei socialisti e dei sindacati confederali di non far parlare Togliatti, affidando l’ordine pubblico, durante la manifestazione funebre, alla polizia municipale

Nesti
La tua partecipazione ai funerali civili quali reazioni suscitarono nel mondo ecclesiastico?

Corghi
Il mio vescovo mons. Socche mi convocò a Roma dopo un suo colloquio con Tambroni ed un altro con il vice segretario del partito On. Salizzono e mi presentò una serie di imputazioni che a norma del diritto canonico erano oggetto del S. Uffizio. I capi d’accusa? Deviazione ideologica resa esplicita con i miei pronunciamenti contro il governo Tambroni (che avrebbero permesso il sovvertimento dello Stato da parte comunista); partecipazione ai funerali civili delle vittime di Reggio del 7 luglio. Il colloquio terminò con un monito e l’invito a discolparmi, entro otto giorni e l’invio della documentazione al S. Uffizio per i provvedimenti. Con l’assistenza di Moro e di Fanfani la grave accusa del vescovo verrà archiviata. Devo ricordare che nello stesso pomeriggio del 9 luglio Scelba mi volle vicino ai funerali dell’On. Simonini ex ministro socialdemocratico, anche per meglio garantirsi lungo il tragitto del corteo funebre.

Nesti
Quali le reazioni di Tambroni?

Corghi
Ritornato a Roma accusai senza mezzi termini Tambroni e chiesi le dimissioni immediatamente. A quel punto Tambroni, presente, disse che “nei giorni scorsi c’è stato qualche democristiano che ha preso i contatti con il PCI”. Nella sala il silenzio fu glaciale. Moro divenne pallido.
(Da diverse fonti eravamo stati informati che le forze dell’ordine e i servizi segreti erano in stato di emergenza. Prima di salire alla Camilluccia avevo visto sfilare un battaglione di Paracaduti con canti non nuovi alle mie orecchie. Poi camion di carabinieri anche alle pendici di monte Mario dove si trovava la Camilluccia.)
Ruppi il silenzio mentre Tambroni posava le mani su una serie di fascicoli tolti dalla busta di pelle. Gli dissi: “Lei ha ora l’obbligo morale di dire a questa direzione i nomi dei democristiani che sono colpevoli di rapporti con il PCI”
Tambroni rispose che non c’era nessuno dei membri della direzione. Io ho comunque insistito chiedendo altri nomi. Tambroni dice di aver fretta e la risposta non verrà mai data.
Alla fine Moro propose un comunicato finale con espressioni di solidarietà al governo, io non l’approvai. L’agonia del governo Tambroni si protrasse.
Finalmente il 18 luglio la direzione decide di dare il ben servito al governo morente. Fu designato l’On. Fanfani per costituire un nuovo governo espressione della convergenza della DC, del PSDI e del PRI.

Nesti
Ma come giudichi il ruolo di Moro di fronte alla crisi aperta da Tambroni?

Corghi
Ho conservato nel mio archivio gli interventi di Moro nelle molteplici riunioni della direzione DC. Da ciò posso desumere che a moro stava a cuore di salvaguardare la unità, complessa, della DC. Nel parlamento ci fu l’astensione dei socialisti al voto sul governo Fanfani come avvio volto ad allargare l’area democratica.

Nesti
Quali furono i passi decisivi per la costruzione di un centro-sinistra organico?

Corghi
Si dovrà attendere la fine del 1963 per la formazione del centro sinistra con la partecipazione al governo dei socialisti. Al congresso del settembre 1964 della DC Moro indicò i punti di partenza per raggiungere nuovi traguardi, ma la inflazione bloccò la politica delle riforme che era all’origine del governo. Per Moro l’unità politica dei cattolici poteva salvarsi se ci si muoveva per l’attuazione di una democrazia integrale. A Milano, nello stesso anno in cui era in atto l’occupazione studentesca della Università Cattolica, Moro dichiarò che non si poteva tornare indietro verso politiche chiuse e lontane dalle nuove sensibilità popolari. Le elezioni della primavera 1968 travolsero Moro. Moro ritornò al silenzio meditativi pur operando come ministro degli esteri. Al congresso di Roma del 1969 Moro ritornò alle scelte di valori per una politica di più alto livello. Nel novembre mentre il consiglio nazionale pendeva atto delle dimissioni di Piccoli da segretario del partito, Moro accusò il partito di gestire il potere in modo disincantato, privo di una strategia quasi fosse sul viale del tramonto. Nel 1976 veniva eletto presidente del partito e Zaccagnini segretario. Delineò la necessità di una visione più ampia dei rapporti con le forze politiche da “permettere che il PCI senza mutare il suo ruolo, fosse chiamato in modo veramente efficace a mettere a disposizione del Paese, per senso di responsabilità la sua rilevante forza rappresentativa”. Da ciò l’avvio di una strategia del confronto. Per Moro, dopo 30 anni dal disegno degasperiano era inevitabile, in una situazione inquietante, l’inclusione del PCI in fase avanzata verso l’accettazione dei principi democratici, alle grandi scelte politiche.
A 62 anni Moro aveva contribuito a portare la società italiana verso l’alternanza democratica. Si trattava quel giorno del 16 marzo 1978 di avviare un governo Andreotti di cui il PCI per la prima volta dal 1947 avrebbe fatto parte anche senza propri ministri. Il discorso di Moro alla Camera avrebbe dovuto sancirne il riconoscimento. Quel giorno venne rapito.Si difese con le lettere per non essere sacrificato ad un’oscura ragione di Stato. Papa Montini superando la prudenza vaticana scrisse la lettera ai brigatisti 37 giorni dopo la cattura.La sua morte e la sua vita costituiscono pagine nodali della democrazia cristiana e della storia del processo democratico dell’Italia contemporanea.
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