Nel seguito, puoi leggere la
presentazione che Andrea Spini ha scritto per la mostra-installazione “Il labirinto del sogno nel pluralismo contemporaneo”.
Buona lettura!
In L’eternel Adam, un racconto pubblicato postumo nel 1910 su la “Revue de Paris”, Jules Verne ci presenta un mondo futuro, in cui, dopo un passato di rovinose violenze, finalmente l’uomo, giunto “nudo e imbelle sulla terra”, poteva celebrare, con la pace raggiunta, la “sua marcia trionfale”: a dispetto di “discordie secolari e odi fratricidi, mai nemmeno per un istante egli aveva interrotto la lotta contro la natura”: l’umanità “aveva vissuto con il cervello e non solo con il corpo; aveva saputo usare la ragione, invece di esaurirsi in guerre insensate, ed ecco perché (…) era avanzata a passi sempre più rapidi verso la conoscenza e l’asservimento della materia….”
II
Eppure è sufficiente un evento trascurabile, come il ritrovamento di una cassetta sepolta sotto la sabbia, per precipitare lo “zartog (saggio) Sofr” nella più cupa disperazione: in quella cassetta erano le prove che la “razza” degli Andart’-Iten Schu, di cui il “saggio Sofr” era un eminente rappresentante, non erano altro che discendenti di altri uomini, che in un altro tempo, “avevano fatto parte di una umanità gloriosa, a paragone della quale l’umanità attuale balbettava soltanto!”
Nei segni del manoscritto ritrovato, che Sofr con sempre maggiore angoscia stava traducendo, “c’erano tutte le nozioni che Sofr possedeva, e altre che egli non avrebbe nemmeno osato immaginare”, fino a quella più sconvolgente di tutte: la spiegazione di “quel nome, Hedom, intorno al quale si erano agitate tante inutili polemiche…Hedom era la deformazione di Edam, a sua volta deformato da Adamo, e Adamo altro non era che forse che la deformazione di un nome più antico” .
III
Allora, gli Andart’-Iten-Schu “non avevano inventato niente di nuovo (…) e forse gli stessi contemporanei di chi aveva scritto quelle pagine, non avevano inventato nulla di più”: “sanguinando per gli innumerevoli mali sofferti in precedenza da tutto ciò che aveva avuto vita, cedendo sotto il peso dei vani sforzi accumulati nell’infinito dei tempi, lo zartog Sofr-Ai-Sr raggiungeva lentamente, dolorosamente, l’intima convinzione dell’eterno ricominciare delle cose”.
IV
Segni del tempo e tempo dei segni: Anita e Angela, a differenza di Sofr non si aggirano, con timore e tremore, nella spirale senza fine di un “eterno ricominciare”.
Al contrario: i segni del tempo sono il tempo dei segni, altro non conosciamo.
Nella pagine accartocciate di un libro di ceramica, nelle squame verdenero di un pesce mai vissuto, nelle tavolette dai riflessi dorati di parole che incidono la materia, che troviamo nella cassetta senza chiusure di Anita E Angela, non è depositato il repertorio delle nostre angosce di fronte al vuoto nel quale siamo immersi, ma il silenzio troppo rumoroso di tutte le voci che hanno costruito la nostra foresta.
E fuoco, e terra, e aria, e acqua, nella mani di Anita e Angela rimangono gli elementi dal cui impasto si produce continuamente mondo, dal tempo senza nome che pure ci appartiene fino al centimetro quadrato di silicio nel quale, oggi, immagazziniamo la nostra memoria.
Ma non è la “cavalcata dell’umanità”(Bergson) che si celebra nell’opera di Anita e Angela, né vi si ripropongono simulacri delle “sterminate antichità”(Vico): la loro ricerca si muove su un altro piano, e sarebbe irrimediabilmente fuori strada chi vedesse nei loro manufatti una serie di ri-produzioni – con materiali diversi – del già noto.
A differenza della cassetta ritrovata dallo zartog Sofr, i loro banchi di lavoro ci immettono nei percorsi frastagliati delle avanguardie storiche, metabolizzate in un linguaggio unico per originalità e rigore, nel quale, come nell’opera di Giaacometti o nei tatuaggi di molte etnie sopravvissute al nuovo che avanza, la materia, terra o carne, viene scarificata per mostrare, negli interstizi delle slabbrature di un volto o nell’impronta delle dita che sottraggono ombra alla terra lavorata, i segni di una luce che si può solo indovinare.
No, non si va dalla terra al sole, dall’ombra alla luce, dalla materia allo spirito, ma dal mistero al mistero. L’opera di Anita e Angela si configura, cioè, come uno tsunami che viaggia alla rovescia: come onde che dalla spiaggia del presente si ritirano, arrotolandosi su se stesse per ritornare all’origine del loro viaggio, a quell’“impercettibile brivido” che ne ha provocato il movimento, così dalla matericità dei primi lavori, il percorso di Anita e Angela sta procedendo à rebours, verso l’impossibile ostensione della phoné, il suono umano che segnò l’inizio del tempo.
Non, dunque, un eterno ricominciare, ma un ritornare a casa progredendo nel tempo: colori sempre più luminosi sostituiscono l’ossidato verderame delle terre, gli alfabeti del tempo della scrittura si contraggono in sottili bave bianche che attraversano esplosioni giallorosse, fin quasi a rendersi illeggibili, per scomparire del tutto nel gioco dell’ombra e della luce cui ci immette il “labirinto del sogno”.
Terribile e gioioso, inquietante e liberante, il viaggio di Anita e Angela ci consegna a noi stessi, invitandoci, se ne abbiamo il coraggio, a smettere di cercare il volto dietro la maschera: Aletheia (Verità) è nel gioco delle maschere in cui siamo da sempre confitti e che il labirinto del sogno ci mostra sempre uguali e diverse, senza sapere perché, senza smettere di domandarci perché, nell’orizzonte senza inizio né fine dicibili del nostro Essere-al-mondo.
Andrea Spini, luglio 2006
Nota: L’éternel Adam, è stato tradotto da Massimo Del Pizzo per Sellerio editore nel 1984. Le citazioni sono tratte da questa edizione (pp.18 e 64-67). Tralasciamo, perché inessenziali in questo contesto, le questioni dell’attribuzione del testo, se in toto o in parte al figlio Michel. Per questo si rinvia alla nota critica di Massimo Del Pizzo, La fine del mondo, la fine della scrittura (pp. 73-84 della tr. cit.)