Pietro Andreini
La rappresentazione del nemico nella fotografia di guerra - Analisi di un caso: Iraq, 1991-2003
Presentazione
“All’estrema semplificazione del mondo, come hanno ben indagato gli studi di psicologia di massa, la guerra associa il suo carattere di festa suprema con implicazioni quali: il produrre un’unione materiale dei membri del gruppo; l’essere un rito di spesa e di sperpero; il costituire una modificazione più o meno grande delle regole morali; l’essere un rito di esaltazione collettiva; l’instaurare, da un lato, una specie di annullamento della sensibilità fisica, dall’altro, riti sacrificali che sono a loro volta intimamente uniti dal culto della morte”. (Mignemi A., Lo sguardo e l’immagine. Le fotografie come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 111)
E’ di fronte a questa immagine e leggendo e osservando il reportage di cui era simbolo che è nata l’idea per questo lavoro di ricerca.
Un fotogramma carico di energia che esprime tutta la sua forza. Nell’inquadratura in bianco e nero una mano ustionata che poggia pesante a terra. E l’occhio dello spettatore che inevitabilmente cade sulla fede portata all’anulare sinistro: l’unica cosa che sembra ancora aver mantenuto una certa vivacità. Il contrasto dei toni di grigio pare non aver avuto bisogno di ritocchi o forzature vista la varietà dei pigmenti che descrivono la sabbia sul terreno. Anche senza l’aiuto di altre informazioni tutto fa pensare a una morte traumatica e atroce di un uomo che lascia soli moglie e figli.
Un’immagine di quelle che non si dimenticano e che rimangono ben stampate nella memoria. Non è necessario un primo piano straziante per descrivere il volto della morte o quello della guerra. Può essere sufficiente anche un particolare.
L’immagine scattata da Peter Turnley era icona di un reportage firmato Robert Fisk (corrispondente dal Medio Oriente del quotidiano britannico The Independent) sul bombardamento operato dall’aviazione alleata con agenti infiammabili e defoglianti (napalm e agente orange, nel deserto) su una colonna dell’esercito iracheno in ritirata dal Kuwait. “Le cose che vediamo, l’orrore e l’oscenità dei cadaveri, non possono essere mostrate al pubblico […]. Se quello che stavamo vedendo fosse stato mostrato, nessuno sarebbe mai più stato disposto ad appoggiare una guerra”.
La fotografia è stata pubblicata sulla prima pagina dell’“Internazionale” del 7-13 febbraio 2003 e datata 12 marzo 1991. Il titolo della rivista è chiaro e diretto: “Ho visto la guerra”. E alla vigilia di un nuovo intervento anglo-americano in Iraq anche il contesto cominciava a chiarirsi. Ma perché questo fotogramma e gli altri che lo accompagnavano all’interno della rivista non si erano mai visti prima? Cosa abbiamo realmente visto allora, e cosa vediamo oggi, sulle guerre?
Nota sul relatore
Pietro Andreini, laureato in Scienze Politiche con indirizzo politico-sociale presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze con il Prof. Marco Tarchi (tesi di laurea in Comunicazione Politica, La rappresentazione del nemico nella fotografia di guerra. Analisi di un caso: Iraq, 1991-2003). Da molti anni lavora nel Terzo Settore, attualmente è educatore al Centro Giovani di Borgo San Lorenzo (Fi). Appassionato di fotografia ha realizzato e allestito diverse mostre fotografiche su vari temi soprattutto a carattere sociale; si interessa anche di disegno grafico. E’ impegnato nel volontariato con l’Associazione Progetto Accoglienza, in particolare nel settore comunicazione e immagine.