Venerdì, 20 Febbraio 2015 18:31

I giorni della memoria

Scritto da  Gerardo

Continuano le pubblicazioni dell'Archivio dei diari.
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Nel seguito, un estratto dalla newsletter n. 302 (a cura di Natalia Cangi, Nadia Frulli, Nicola Maranesi, Loretta Veri), con relativi link.





Nel Giorno della memoria

Era l'inizio del 1945. Soffiava un vento freddo, secco, sferzante.
La terra era gelida. La guerra stava quasi per finire, era soltanto questione di tempo, e mentre i tedeschi cominciavano a perdere e a ritirarsi verso ovest, l'Armata Rossa, impetuosamente, avanzava sempre più verso il campo e la nostra liberazione sembrava ormai prossima, si sentiva nell'aria. Finalmente l'Umanità non restava più a guardare, si stava ricordando di noi, non ci aveva abbandonato, non ci lasciava lì a morire.
Dappertutto si vedevano tedeschi preoccupati, inaspriti: e più loro diventavano nervosi più noi speravamo nella libertà. Anche la disciplina diminuiva di giorno in giorno.
Il "grande" Terzo Reich era ormai sul punto di crollare e pertanto era necessario nascondere le tracce dello sterminio, del genocidio commesso. Nessuno doveva sapere. Puntualmente, però, continuavano ad arrivare carri stipati di cadaveri dai sottocampi vicini, già evacuati; dovevamo noi del Sonderkommando di Birkenau liberarci di loro.
Sotterrarli nelle fosse comuni, in tedesco Birkenwald, non era più possibile, li avrebbero senz'altro scoperti. I tedeschi ci obbligarono, quindi, a fare funzionare i forni fino alla fine, fin quando non fosse stato cremato l'ultimo corpo. Una sera, al tramonto, eravamo quasi al termine del nostro penoso travaglio, con velocità misteriosa e fulminea si propagò fra noi la notizia che avremmo dovuto smantellare i crematori.
La notizia provocò un certo subbuglio, ma non avevamo più tempo da perdere, dovevamo fare in fretta, l'Armata Rossa era quasi alle porte. I turni di lavoro per la distruzione d'ogni "pezzo" che potesse testimoniare i crimini nazisti diventarono massacranti, però alla fine siamo riusciti a svolgere anche questo doloroso e snervante incarico ordinato dai nostri capi. Finalmente ci portarono in una baracca, potevamo riposare. Prima di andar via le SS ci minacciarono, ci ordinarono di non muoverci per nessuna ragione, di non uscire e di non parlare; in caso contrario avrebbero sparato su di noi senza pietà.
Presto sarebbero tornati a prenderci per portarci via. Ma dove ci avrebbero condotto? Noi non lo sapevamo, certo non potevamo aspettarci di essere liberati. […] Fummo subito presi dal panico, temevamo che volessero fucilarci e così, appena le guardie si furono allontanate, invece di rimanere nelle baracche, come ci era stato ordinato, uscimmo di corsa mischiandoci agli altri. Dentro rimasero soltanto quelli che non erano più in grado di reggersi in piedi e i moribondi che da un momento all'altro avrebbero finito di soffrire. Abbiamo percorso circa tre chilometri e mezzo per andare da Birkenau ad Auschwitz. Era la fredda e nervosa sera del 17 gennaio del 1945. Era un inverno rigidissimo, potrei dire quasi glaciale. Quando siamo arrivati noi stavano già evacuando una fila lunghissima di prigionieri, tutti messi in colonna, all'aperto, oltre il cancello del lager, tutti diretti a Wodzislaw Slaski, distante 63 km. Senza esitazione ci siamo uniti a loro. In mezzo a tutta quella gente nessuno ci riconosceva; finalmente non facevamo più parte del Sonderkommando, non eravamo più quelli che potevamo testimoniare i crimini nazisti, ma eravamo dei comuni prigionieri. Appena uscii dal cancello guardai con gioia il paesaggio, gli alberi innevati, il cielo "bianco", rividi il mondo attorno a me. Mi sentivo diverso, libero, uomo tra gli uomini, quando svenni per la felicità. D'un tratto ritrovai l'energia, capivo che potevo, anzi dovevo farcela, bisognava solo avere ancora un attimo di pazienza e continuare ad avere voglia di vivere, di ricominciare. Solo questo contava: credere ancora nella vita. Nel giro di qualche ora l'interminabile colonna si mosse e tutti schierati, come delle marionette, cominciammo a camminare prima piano e poi sempre più forte, ci obbligarono a correre follemente, perché bisognava allontanarsi il più possibile dalle truppe russe che puntavano in direzione del campo e non dovevano trovarci in vita.
Si trattava di un esodo disastroso, di un'altra ecatombe. Il campo fu poi liberato il 27 gennaio 1945, era un sabato.

Testimonianza tratta dalle memorie di Shlomo Venezia: L’abisso e il silenzio (Edizioni Premio LiberEtà).

Sito ufficiale: Fondazione Archivio Diari Nazionale.
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