Condividiamo un intervento di
Ezio Albrile, sulla simbologia, di antica tradizione indiana, del ciclo di rigenerazione e rinascita. E sulle sue influenze in ambito greco.
Nei testi sacri dell’antica tradizione indiana, i Veda, il «Grande Serpente» è considerato sacro nel suo aspetto di Serpente Cosmico, Ananta, l’«infinito». Come in numerose altre culture, anche in India il serpente è associato, a causa del ciclico mutare della sua pelle, al concetto di rigenerazione e rinascita. Ma non solo, poiché la sua immagine si lega simbolicamente alle pratiche e discipline yoga: serpenti sono i canali energetici per i quali scorre l’energia vitale nel corpo umano, chiamati nÄdÄ«, che convergono e si intersecano in determinati cakra «ruote» o centri psicoenergetici, di cui i principali sono situati lungo l’asse del busto e che portano al risveglio di energie sopite o kundalini.
Qualcosa di simile al caduceo del dio greco Hermes, se pensiamo che lo stesso Platone riconosceva nel corpo umano l’esistenza di due canali paralleli alla colonna vertebrale (Timeo 77d), come le nÄdÄ« [nadi - con vocali lunghe]. Certo non si tratta di casualità, e se non si vuole dare credito all’idea che Platone abbia ricevuto queste idee dalla tradizione pitagorica e che Pitagora le avesse a sua volta acquisite durante un viaggio in Oriente, occorre postulare che siano esistiti contatti fra la Grecia e l’India anche anteriormente alla conquista di Alessandro Magno, e in particolare sotto l’Impero persiano, che dalla fine del VI sec. a.C. aveva riunito in un unico stato terre lontane come il Sindh, l’Egitto e la Ionia.
Nessuno, però, ha rilevato che in entrambi i casi l’idea dell’energia che irriga il corpo umano in un flusso serpentino, alimentando i centri vitali e sottili dell’essere, deriva sostanzialmente da una cultura maschile, androcratica. In India si parla della kundalini, come di una energia sopita alla base della colonna vertebrale, latente nel «supporto di base», il mÅ«lÄdhÄra [idem, con le prime tre vocali lunghe] cakra, il cakra collegato all’ano e agli organi genitali. Ora, attraverso la pratica yogica, l’elemento terra del mÅ«lÄdhÄra è reintegrato o imploso nell’elemento acqua del secondo cakra, e così via sino all’elemento etere del quinto cakra, la viÅ›uddhi «purificazione», al livello della gola. Questo fluido sessuale, cioè la potenza vitale della kundalini, per effetto del calore intenso e della pressione generata attraverso il controllo yogico del respiro (prÄnayÄma [idem, con le vocali ’dispari’]) e vari legami yogici (bandha) e sigilli (mudrÄ), scorre verso l’alto lungo il canale sottile che percorre la colonna vertebrale. Quando raggiunge la volta cranica, il fluido si è completamente mutato in amrita, il nettare di immortalità. Racchiuso nella volta cranica, servirà a rendere il praticante la disciplina yogica immortale ed eternamente giovane, dandogli poteri soprannaturali (siddhi).
Le donne che almeno una volta nella loro vita hanno sperimentato un orgasmo, avranno riconosciuto in questo racconto i tratti sommari della loro piacevole esperienza. Di fatto nelle descrizioni femminili dell’orgasmo uterino è presente la percezione di un piacere implosivo irradiantesi in tutto il corpo; tale sensazione di benessere si diffonde verso l’alto, dalla vagina al plesso solare sino a raggiungere la volta cranica.
Forse una cultura dominata dal pensiero maschile, in qualche modo si è appropriata di qualcosa di estraneo, di un’esperienza «allogena». Preme sottolineare come in tali discipline «iniziatiche», in cui un uomo tenta di diventare simile al suo dio, il percorso per arrivare alla meta utilizzi un sentire uterino. Sembra che la finitudine dell’orgasmo maschile rappresenti l’anelito verso il divino e il paradisiaco attraverso la chimera di una femminilità realizzata. In altre parole, il piacere negato all’uomo si trasforma nel suo dio.
Ezio Albrile