Su violenza, religioni e sensus vitae. Spunti preliminari alla XXIII Summer School, 2016
- La violenza ci sovrasta e ci sgomenta
Effettivamente, la violenza, comunque la si voglia spiegare, penetra nelle nostre case attraverso il web, le reti, le tv, i giornali. Alimenta un senso di insicurezza lungo linee immaginarie da Nizza a Cleveland, da Istanbul a Tripoli, da Londra a Milano ecc.
La globalizzazione della violenza si associa alla mappa della paura. Siamo di fronte ad una situazione di instabilità e disordine.
Eventi apparentemente sconnessi gli uni dagli altri sono destinati a tratteggiare la mappa del presente e del futuro prossimo. Per usare un’espressione di Benedetto Croce, le forze irrazionali della storia si stanno impadronendo dello scenario.
Da molti è stato sottolineato come siamo immersi nell’era dell’assenza. Mancano modelli di società in grado di supplire al crollo degli schemi novecenteschi.
Nel pieno di una crisi epocale, fondamentale appare interrogarsi sul ruolo delle religioni. In modo più preciso, quali le connessioni fra Islam e violenza?
- Di fronte all’islamo-fascismo o al jihad-fascismo?
Secondo il politologo Hamed Abdel-Samad, lo spettro che agita le nostre coscienze con il terrore e il tremore è da attribuire all’Islam e dunque all’islamo-fascismo.
Per il politologo egiziano tedesco Asiem el Difraoui, invece di islamo-fascismo sarebbe più corretto parlare di jihad-fascismo. A suo parere l’Islam presenta infatti espressioni ben più moderate, del tutto in antitesi con l’ideologia jihadista, totalitaria emanazione dello pseudo-Stato islamico, nata anche con il supporto dell’Occidente negli anni ottanta in Afghanistan per combattere l’invasione russa.
È una storia che in Europa tendiamo a rimuovere. Qui però va detto che il jihadismo è una forma perversa e malata che tende a legittimare una sua lettura come espressione dell’Islam.
Si pensi alla predicazione sul paradiso come obiettivo per l’individuo o il gruppo musulmano che oggi si immagina un futuro felice solo post mortem.
Il Firdaus, lontano antenato del termine paradiso, di derivazione persiana, veniva promesso dal Corano ed è stato descritto nei secoli con dovizia di particolari, come si desume dalla letteratura religiosa. All’epoca della decolonizzazione, nei paesi del Maghreb e del Medio Oriente, nati dalla forte contrapposizione con i paesi colonizzatori, fu costante il ricorso alla violenza contro le forze occupanti, sperando in un futuro di indipendenza, di egualitarismo, di giustizia, di sviluppo.
La decolonizzazione fu l’epoca dei grandi slogan, dei grandi sogni. Quella speranza con il tempo si è rivelata debole e illusoria.
Negli ultimi anni c’è una nuova versione del concetto di felicità imperante mezzo secolo fa.
Il paradiso è diventato, grazie a certe élite religiose che lo propugnano nella loro strategia di reclutamento, anche la terra sognata dai poveri, dai disoccupati e dai marginali, associata all’utopia-paradiso post mortem che circola nell’islamosfera di internet e degli spazi mediatici, un paradiso dai dettagli incredibili, come si desume dalla letteratura islamista.
Le donne sono promesse in gran numero come ricompensa per i giusti. Le donne del paradiso, le uri, sono vergini belle, sottomesse e languide. E il paradiso delle donne? E per le donne quale paradiso?
La ricompensa per la donna è l’essere sposa per l’eternità, godere con il marito di perpetua felicità coniugale, in buona salute, fermi all’età simbolica di trentatré anni. E se la donna è divorziata? Si risposerà nell’aldilà con un uomo a sua volta divorziato.
Che cosa rappresenta l’Occidente? Si sogna di andarci da migrante o da martire. Si sogna di andare in Occidente, di vivere e morire là o di sottometterlo e/o di distruggerlo. Ma il paradiso nell’aldilà alimenta fantasie che creano malessere, perché, anche se lo si vuole ignorare, nel profondo si è consapevoli che prima di andare in paradiso bisogna morire.
L’IS ha più legami con pornografia e suicidio che con l’Islam. Il nuovo paradiso motiva le masse, dà senso alla loro disperazione.
Se la matrice di questo terrorismo è questo jihadismo radicale impregnato di forme e formule della stessa cultura giovanile, di una sorta di anti-cultura di stampo totalitario, ciò conferma la tesi anche di papa Francesco, che tiene a distinguere fra l’Islam e questi movimenti che usano il nome di Dio in modo sanguinario anziché di amore.
- Nella globalizzazione è il terreno di incontro fra fedi?
Qui occorre fare una parentesi importante e rispondere ad una domanda ritornante. Papa Francesco sta facendo sforzi poderosi per evitare che si possa parlare dell’esistenza di una guerra di religione. Questa guerra sconvolge innanzitutto il mondo islamico. Anche i cristiani, in un contesto storico-politico legato a secoli passati, hanno conosciuto sanguinose guerre di religione. L’intolleranza, facendo leva anche sull’interpretazione della Bibbia, ha coperto gli interessi, i denari e il dominio dei popoli. Si è dunque di fronte ad un conflitto istigato da un centro operativo che si fa chiamare stato islamico. Oggi muoiono, più per mano degli islamisti, molti sunniti e sciiti. Più che scontro di religioni scontro di religione?
Merita di riflettere sulla posizione di papa Francesco.
Perché Francesco si ostina a ritenere che le religioni non c’entrano e che dietro la violenza ci sono sempre interessi economici e politici? Perché avrebbe invitato i musulmani a pregare in chiesa se a sconvolgerci non fosse un conflitto istigato dal cosiddetto stato islamico che mira a rafforzare le proprie forze puntando ad una guerra civile europea?
Bisogna innanzitutto contestualizzare. Non si tratta di indulgere alle tesi del “buonismo” di papa Francesco. Come leggere il “misticismo” di Francesco? Faccio mio quanto scrive Mauro Magatti sul “Corriere della Sera” (Il misticismo di Francesco, terreno di incontro tra fedi, 7 agosto 2016, p. 31):
«La crisi che sta investendo il mondo intero esprime i dilemmi dell’epoca che C. Taylor chiama “dell’Umanesimo autosufficiente”: privati della trascendenza di Dio, non sono ammessi fini ultimi diversi dalla prosperità umana».
Tale crisi si rivela particolarmente acuta nel contatto tra la modernità occidentale e l’Islam contemporaneo, estraneo com’è al percorso di secolarizzazione. «Prestando il fianco ad ogni tipo di strumentalizzazione politica ed economica, una parte delle sue élite considera mortale per la stessa religione islamica l’esposizione ad un Occidente che ha fatto ormai della tecnica – alleata dell’io individuale – il proprio dio».
Il punto di forza e di debolezza della tradizione islamica è di parlare di Allah come un dio imperscrutabile? «L’idea di sottomissione – che ci suona scandalosa – offre una via di uscita alla solitudine e al disorientamento di tanti. Dio, attraverso i suoi interpreti, può arrivare a chiedere qualsiasi cosa».
Nella stagione dell’autonomia del soggetto, l’idea della sottomissione rinvia all’idea di padre come pura potenza. Di qui, nella follia dei kamikaze che uccidono pensando già di essere in paradiso, vediamo le conseguenze tragiche della sovrapposizione fra il vuoto dell’Io e l’onnipotenza divina.
Dunque, con “il misticismo” di Francesco non si tratta di fuggire dalla storia, ma di costruire ponti quando molti vogliono costruire muri tra chi ha fede. Non si tratta di prevedere risposte per tutto, ma di approdare ad una sospensione operosa e coraggiosa davanti al mistero, cioè a ciò che non sappiamo e non dominiamo.
C’è una fede nuda che tutti accomuna, in solitudine e in silenzio.
- Oltre le divisioni, pregare, per “pensare al senso della vita” (Wittgenstein)
Se l’ultimo quarto di secolo è stato contrassegnato dalla violenza e dal disordine, si registra altresì il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, in cui si rivelano divinità inique di una società ingiusta. Si è di fronte, altresì, a poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti degli stati, fuori come sono da qualsiasi controllo che abbia una pur minima parvenza di democrazia. Si tratta dunque di totem intoccabili e vendicativi, davanti ai quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America.
- Le grandi migrazioni nel pianeta nomade
Sulla base di contributi di Richard Sennett (Lo straniero, Feltrinelli, 2014), i migranti non sono soltanto vittime della necessità, i migranti cosmopoliti possono diventare un modello per abitare in modo appropriato le città. Molti migranti non sono più gente che va in un posto, ci lavora per dieci anni, poi torna indietro come hanno fatto nel XIX secolo gli italiani e i polacchi. Oggi i migranti sono altro.
Il sistema di flussi migratori globali suppone una differente nozione di identità. Per Sennett, migrando non si perde più la propria identità, ma la si integra in qualcos’altro. È in corso una costruzione sociologica diversa che rimanda al movimento, alla capacità di muovere di città in città competenze e capacità professionali. Le migrazioni contemporanee sono un fenomeno molto complesso. Pensare che i rifugiati siano dei parassiti e che rappresentino l’unico paradigma del modo in cui le persone migrano nel mondo è il segno di una cecità fatale. Per Sennett, a partire dalla metà del XX secolo, l’urbanistica e l’architettura hanno reso le nostre città dei sistemi chiusi, dovremmo trasformarle in sistemi aperti. Per affrontare le grandi migrazioni bisogna cambiare la stessa urbanistica, creando quartieri ed edifici porosi per agevolare l’integrazione. Oggi sempre più il mondo non solo è attraversato dalla globalizzazione ma anche dalla dimensione nomadica. Qual è la tua dimora?
L’uomo, dice Attali (L’uomo nomade, Spirali, 2006), «sta ridiventando viaggiatore… Oggi più di 500 milioni di persone possono essere considerate nomadi del lavoro o della politica: gli immigrati, i rifugiati, gli espatriati, i senza fissa dimora e i migranti di ogni sorta… Più di un miliardo di persone viaggia ogni anno per piacere o per obbligo… Ogni anno, 10 milioni di persone espatriano: questo, da qui a cinquant’anni, potrà indurre più di 1 miliardo di individui a vivere fuori del paese natale». Poi ci sono – vale la pena ricordarlo – i “nomadi virtuali”, quelli che navigano nell’“oceano” della rete, che disegnano viaggi senza spazio, che costruiscono reti transnazionali e nuove “communities without propinquity”.
In questo quadro, la tesi di Attali è che sia in corso un nuovo scontro fra nomadismo e sedentarietà. L’ultimo grande “impero” stanziale – gli Stati Uniti, superpotenza ma in declino – si trova di fronte gli «innumerevoli nomadi della miseria», gli «infranomadi», che «sono e saranno i motori principali della storia, dell’economia e della politica». Questa prospettiva, secondo Attali, offre un senso anche agli eventi drammatici dell’11 settembre: «Con l’11 settembre 2001 sono cominciate nuove guerre che contrappongono ribelli nomadi all’attuale impero. Queste guerre mescoleranno alle tecnologie più avanzate gli eterni principi della guerra nomade (far paura per far fuggire)». Il futuro, secondo Attali, sarà «un terribile caos da cui nascerà una nuova civiltà», insieme nomade e stanziale. «La mondializzazione democratica – così la chiama Attali – passerà attraverso la difficile messa in pratica delle virtù del nomade… e delle virtù dello stanziale. Verrà allora a delinearsi, al di là di immensi disordini, qualcosa come la promessa di un meticciato planetario».
Che cosa renderà possibile questo passaggio dal disordine ad una «mondializzazione democratica» segnata dall’ibridazione e dal meticciato? Quali attori, quali istituzioni, quali sistemi di governance e di governo garantiranno il nuovo ordine, le nuove modalità di convivenza, la possibilità di una terra che kantianamente sia «ospitale per tutti i viandanti della vita»? Di questo Attali non parla.
Queste considerazioni preliminari intendono avviare la ricerca di questa nostra, stimolante International Summer School. A tutti voi un cordiale benvenuto. Spero che possiate fare un buon cammino e spero di poterlo fare anch’io, dopo ventitré volte, non per l’ultima volta.
Molti saranno gli apporti, in varia direzione, tentando di affrontare questa tematica complessa, una delle più complesse nella storia ultraventennale della nostra Summer School. Grazie dunque a tutti voi per la vostra partecipazione e per i contributi che intenderete apportare. La tematica sarà affrontata nel suo “affresco”, scritto in un linguaggio brillante e suggestivo (che fa venire in mente la tradizione storiografica francese delle Annales); c’è forse la “poesia”, manca però la “prosa” della politica, delle istituzioni, del progetto. Ci occupiamo di aspetti della società contemporanea, ma al fondo resta la questione della religiosità, a prescindere anche dalle religioni. Qualche giorno fa papa Francesco, sostando in solitudine ad Auschwitz, ha invitato a ripercorrere le orme di un itinerario silente avvolto di stupore e di misericordia.
Grazie. Signore e signori, a tutti voi buon cammino! Buon lavoro!
(a.n.)