Giovedì, 10 Dicembre 2020 20:05

Recensione V&R (novembre 2020)

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Trasmettiamo l'accurata recensione di Flavio Pajer sull'indagine decennale curata dai proff. Rothgangel e Jäggle dell’Università di Vienna sull'educazione religiosa nelle scuole europee.

 

M. Rothgangel, M. Jäggle (eds.), Religious Education at Schools in Europe, Wien-Göttingen, Vienna University Press – Vandenhoeck & Ruprecht Verlage, 2014-2020, volumi 1-6, pp. 310 + 320 + 270 + 216 + 280 + 204.

I due curatori, professori dell’Università di Vienna, l’uno protestante e l’altro cattolico, sono riusciti a portare a termine un’impresa che ha del temerario. Ci son voluti dieci anni dalla prima progettazione dell’indagine (2011) alla edizione completa in versione inglese dei 6 volumi, usciti in successione dal 2014 al 2020. Una settantina i collaboratori coinvolti, scelti in genere tra gli esperti dei rispettivi paesi e delle rispettive lingue. In realtà, l’opera contiene oltre cinquanta rapporti, includendo la totalità dei paesi dell’intero continente europeo e non solo i 27 membri dell’Unione. Il panorama si estende infatti ai confini dell’Europa orientale (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Russia, Ucraina) e all’area balcanica (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia), include pure la Turchia, e non dimentica gli stati occidentali cosiddetti ‘minori’ come Andorra, Liechtenstein, Monaco, San Marino. Al Regno Unito, per la nota disparità dei suoi sistemi educativi subnazionali, sono riservati ben quattro distinti rapporti (Inghilterra, Galles, Scozia, Nord Irlanda). Sarebbe stato utile includere anche un rapporto sulla situazione specifica della religione nella rete transnazionale delle “Scuole Europee”. La suddivisione in sei volumi, singolarmente rilegati, per complessive 1600 pagine, obbedisce alla mappa geografica del continente, suddiviso appunto in sei macro-regioni, ritenute abbastanza omogenee dal punto di vista culturale-religioso: 1. Europa centrale, 2. Europa occidentale, 3. Europa settentrionale o scandinava, 4. Europa orientale o slava, 5. Europa del sud-est o balcanica, 6. Europa meridionale o mediterranea.

Un primo pregio dell’opera è dato dalla griglia di partenza su cui è stato costruito ciascun rapporto. Si è chiesto ad ogni rapporteur di attenersi scrupolosamente a una scaletta dettagliata in ben tredici item descrittivi, che sono: un rapido sfondo socio-religioso del paese, l’inquadramento giuridico dell’insegnamento religioso e dei rapporti tra stato e comunità religiose, lo sviluppo recente delle politiche educative nazionali, la tipologia delle scuole a gestione pubblica e non, l’identità disciplinare dell’istruzione religiosa  (concezioni e finalità), aspetti pratici della didattica religiosa (contesti, tempi, metodi…), le eventuali materie alternative, la sfida della diversità religiosa (com’è affrontata), quale cultura religiosa nella scuola fuori dell’ora di religione, formazione e assunzione degli insegnanti di religione, indagini e ricerche scientifiche in materia, aspettative e desiderata in un orizzonte europeo, eventuali informazioni supplementari. Ne risulta una scaletta puntualmente pensata quale spettro esauriente di indicatori oggettivi comuni e necessari per sottoporre a radiografia lo stato di una disciplina scolastica estremamente frammentata tanto nelle concezioni ideali ed epistemologiche quanto nelle forme organizzative e didattiche. Chiaramente, il modulo di ricerca adottato non è dunque quello dei consueti sondaggi d’opinione per rilevare i tassi di gradimento più o meno soggettivo dei vari protagonisti della scuola di religione, ma quello di esibire tutte e solo le coordinate oggettive e sistematiche dell’offerta di alfabetizzazione religiosa e del suo impatto nei vari contesti nazionali.

Se, da una parte, tale griglia ha costretto i redattori ad adeguarsi al vincolo di uno schema standard prestabilito, dall’altra essa si rivela assai funzionale ai fini di una lettura comparativa dei dati oggettivi emersi tra paese e paese o tra gruppi di paesi. Lettura, tuttavia, non sempre priva di insidie per l’evidente polisemia di molti termini chiave ricorrenti nei rapporti nazionali. Tali rapporti, si sa, provengono da una costellazione di aree socio-linguistiche diverse, ciascuna avente originalità lessicali e risonanze storiche singolari difficilmente traducibili in altra lingua. E non basta affatto l’aver tradotto comodamente tutti i rapporti in un inglese veicolare per esser garantiti della fedeltà ai significati topici del lessico originale. Non pochi possibili equivoci sono dietro l’angolo, a cominciare proprio da certi termini centrali come la coppia religious education, religious instruction (si sa che nelle lingue latine il senso dei due sostantivi è piuttosto inverso a quello letterale), laïcité (intraducibile in inglese e in tedesco se non con l’impropria secularisation o secularism), public school (che non sempre è sinonimo di scuola statale), religious school o church school o école libre o escuela concertada (che non sono affatto scuole private, né sempre soggette alla sola gestione ecclesiale); l’attributo confessional non ha il medesimo significato se si parla dell’insegnamento inglese o tedesco, e la confessionalità tedesca non è quella italiana, e quest’ultima differisce persino da quella spagnola; e gli esempi di lemmi trabocchetto possono moltiplicarsi. In radice, le stesse costituzioni nazionali risentono di un loro irrinunciabile “genio” giuridico, al punto che i sistemi educativi che ne dipendono strutturano l’educazione scolastica secondo parametri non facilmente intercambiabili tra le frontiere. Per non parlare poi della diversa forza contrattuale (formalmente concordataria o informalmente sociologica) di cui possono godere sia le storiche chiese cristiane del continente, sia le recenti nuove comunità religiose o filosofiche, nei loro rapporti non sempre irenici con le politiche educative nazionali. Questi e altri fattori rendono problematiche, se non inaffidabili, certe affrettate letture comparative che si limitano a monitorare solitamente i dati organizzativi e quantitativi dell’insegnamento religioso (in pratica i consueti database statistici, in analogia per esempio con i criteri delle valutazioni PISA), rischiando così di sottovalutarne gli aspetti empiricamente meno appariscenti ma educativamente più incisivi e talora decisivi.

La presente rassegna dei rapporti nazionali, in realtà, non osa avventurarsi in interpretazioni comparative generali, ma riserva un paio di ottimi articoli per sollevare criticamente il problema, per allertare sui limiti e le derive di certe valutazioni comparative, e per offrire alcune analisi esemplificative limitatamente a qualche paese dell’Europa centrale e settentrionale (cf. i contributi del tedesco F. Schweitzer, vol. 1, pp. 16-38, e della norvegese O.M. Hovde Bråten, vol. 3, pp. 19-43). Altro contributo significativo trasversale è quello dell’inglese R. Jackson dell’università di Warwick (vol. 2, pp. 19-41) che ragiona sulla “dimensione europea” dell’educazione religiosa scolastica, rilevando come gli orientamenti emanati da organismi europei (Consiglio d’Europa, Osce, Ecri), i frequenti incontri sovranazionali di associazioni professionali di esperti e di insegnanti, nonché diverse ricerche scientifiche promosse da università sullo sviluppo accademico degli studi religiosi, abbiano incentivato negli ultimi vent’anni non una discutibile omologazione degli insegnamenti religiosi, ma una  tendenziale plausibile ‘europeizzazione’ – tuttora allo stato nascente – dei vari modelli di acculturazione religiosa.

Non poteva mancare, sempre al di là dei singoli rapporti, uno sguardo sintetico al ruolo rilevante giocato globalmente nella storia e nella scuola europea dalle principali chiese cristiane e ora da altre fedi religiose.  Ne riferiscono almeno tre contributi ad hoc collocati opportunamente all’interno dei volumi 4-6 in ragione della prevalenza confessionale nelle rispettive regioni: il punto di vista delle chiese ortodosse sull’educazione religiosa (Y. Danilovich, vol. 4, pp. 15-27), un panorama europeo dell’insegnamento religioso islamico  (E. Aslan, vol. 5, pp. 15-21), il ruolo del cattolicesimo romano nella costruzione d’Europa e in particolare nell’istruzione religiosa scolastica  (F. Pajer, vol. 6, pp. 15-40). 

L’opera – dalle pretese quasi enciclopediche – offre indiscutibilmente una panoramica europea attendibile e dettagliata col suo mosaico di ben 53 rapporti puntualmente ragionati e documentati. Ma, purtroppo, anche datati. E destinati quindi a “invecchiare” inesorabilmente, vista la volubilità incessante dell’oggetto in esame. Un po’ ovunque, infatti, è la scuola stessa ad essere sotto riforma permanente; è la demografia religiosa delle classi scolastiche che conosce evoluzioni sorprendentemente rapide nel variopinto scacchiere europeo; è lo stesso profilo didattico e persino giuridico dei corsi di religione che non cessa di subire innovazioni frequenti e, in alcuni casi, radicali… I rapporti di Belgio e Lussemburgo, per esempio, descrivono qui un insegnamento religioso fermo al 2013 (il relativo volume n.2 della collana è uscito di fatto già nel 2014), mentre nel 2016-18 sono subentrate riforme governative sostanziali che hanno sostituito i precedenti corsi confessionali opzionali con curricoli obbligatori di “Cours philosophiques et citoyenneté” (Belgio) e di “Vie et société” (Lussemburgo). Ugualmente, i rapporti su Norvegia, Paese del Galles, Canton Ticino non hanno potuto ovviamente aggiornarsi sui nuovi Programmi che questi paesi hanno introdotto in questo 2020. Ma novità più o meno importanti in fatto di riforme scolastiche, di curricoli, di didattica sono intervenute in questi anni nella generalità dei paesi europei (Austria, Grecia, Inghilterra, Irlanda, Spagna…) e continuano a prodursi ovviamente, senza che una collana in formato cartaceo come questa, sia pur esemplare per tanti aspetti, possa rincorrere e aggiornare i dati effettivi in tempo reale. Una materia così proteiforme nei suoi connotati di forma e di sostanza mal sopporta una codificazione durevole nel tempo. Per ovviare a tali inevitabili limiti del formato cartaceo, servirebbero quantomeno opportuni e agili aggiornamenti periodici (annuali, per es.), preferibilmente in formato digitale, che Curatori ed Editrici di questa imponente opera potrebbero lodevolmente impegnarsi a fornire al target di professionisti e ricercatori europei interessati e alle biblioteche specializzate. E tra i futuri aggiornamenti necessari includerei anche quelli bibliografici, perché – spiace notarlo, ma è doveroso – tutta l’opera trasuda quasi solo di letteratura anglofona e, in subordine, germanofona, mentre la produzione scientifica edita nelle lingue neolatine (a parte la bibliografia d’appoggio, riferita in appendice ai rispettivi rapporti nazionali) è desolatamente ignorata. Che l’inglese si imponga anche in Europa come lingua veicolare può essere una necessità ormai inaggirabile, ma che pretenda di assurgere surrettiziamente a barriera discriminante tra culture e ricerche scientifiche è accademicamente inaccettabile.

Infine, un ultimo suggerimento pratico per gli Editori: sarebbe di estrema utilità per i lettori che intendessero valorizzare al meglio questa ricca ‘enciclopedia’ europea, poter disporre di un mini-lessico essenziale di quei termini topici o idiomatici che ricorrono nel vocabolario (giuridico, amministrativo, pedagogico, curricolare) di ogni sistema nazionale o di ciascuna delle principali aree linguistiche del continente. Ne guadagnerebbe la comprensibilità dei testi e si eviterebbero, come si accennava sopra, incresciosi fraintendimenti nel delicato transfert semantico da una lingua all’altra.

Flavio Pajer

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