Luigi Pruneti, De turris tenebrarum. L’enigma delle torri maledette
Il libro prende le mosse da una nota recensione di René Guénon apparsa nel 1935 su Études traditionelles e poi rieditata nel 1973 per Gallimard in una raccolta postuma di scritti, in gran parte dedicati all’esoterismo islamico1. La silloge curata da Roger Maridort, guida spirituale di una elitaria cerchia sufica (ṭarīqa) torinese, era espressione dello zelo religioso dell’ultimo Guénon, araldo di una «ortodossia iniziatica» colorata in tinte musulmane. Tra articoli di livello sostanzialmente devozionale trovavano posto una serie di recensioni, vergate in uno stile supponente, indirizzate a rintracciare in ogni fatto ed evento una spiegazione metastorica e «controiniziatica»2. È il caso di questa recensione alla traduzione francese di un suggestivo libro di W.B. Seabrook, un resoconto di viaggi che suscitava inquietanti riflessioni in margine all’enigma degli Yezidi, etnia kurda nota per l’adorazione prestata ad uno strano personaggio divino chiamato Melek Ṭā’ūs, «Angelo Pavone»; un angelo decaduto mediatore tra Dio e il cosmo, circostanza che valse agli Yezidi l’epiteto di «Adoratori del Diavolo». Le cronache recenti hanno visto la minoranza religiosa degli Yezidi oggetto dell’intolleranza e della furia omicida del rinato «Califfato»: l’ISIS ha infatti tenuto in ostaggio e decimato la già sparuta etnia kurda, con atti di violenza inaudita.
Il Guénon, che da buon musulmano ortodosso ignorava o fingeva di ignorare la funzione sostanzialmente positiva rivestita da Melek Ṭā’ūs nella cosmogonia yezidica – in cui l’Angelo è venerato per il suo pentimento, la sua natura buona e la sua potenza di creatore – si esprimeva testualmente così:
«… l’“adorazione del diavolo” potrebbe però suscitare discussioni meno facili da dirimere, e la vera natura del Malak Tâwûs rimane ancora un mistero. Ma la parte forse più interessante, all’insaputa dell’autore, il quale, malgrado ciò che ha visto, si rifiuta di crederci, è quella riguardante le “sette torri del diavolo”, centri di proiezione delle influenze sataniche nel mondo; che una di queste torri sia situata presso gli Yezidi del resto non dimostra affatto che siano essi stessi dei “satanisti”, ma solamente che, come accade per molte sette eterodosse, possono essere utilizzati per facilitare l’azione di forze che ignorano. A questo proposito, è significativo che i sacerdoti regolari yezidi si astengano dall’officiare qualsiasi genere di rito in quella torre, laddove alcune specie di maghi erranti vengono spesso a trascorrervi parecchi giorni; che cosa rappresentano esattamente questi personaggi? In ogni caso, non è affatto necessario che la torre sia abitata in modo permanente, se non è altro che il supporto tangibile e “localizzato” di uno dei centri della “contro-iniziazione”, ai quali presiedono gli awliyâ esh-Shaytân; costoro, attraverso la costituzione di questi sette centri, pretendono di opporsi all’influenza dei sette Aqtâb o “Poli” terrestri subordinati al “Polo” supremo, sebbene tale opposizione possa peraltro essere soltanto illusoria, in quanto la sfera spirituale rimane necessariamente preclusa alla “contro-iniziazione”.»3.
Da questo spunto iniziale muove quindi il lavoro del Pruneti, indirizzato a ricercare e a decodificare gli spazi geografici terrestri entro in quali sorgerebbero queste immaginate «sette torri del diavolo». Un lavoro, però, bisogna sottolinearlo, più simile alla traccia di un romanzo gotico che non a una ricerca storica o sociologica. L’autore ha racchiuso in poco più di cento pagine un argomento sicuramente intrigante e di ampio respiro: l’esito – purtroppo – è abbastanza caotico; così da sommare citazioni, riferimenti a tradizioni religiose, libri, film, opere varie, in un insieme straniante. L’opera è poi – a parer mio – inficiata dal continuo additare alla dialettica «iniziazione» vs. «contro-iniziazione», a dire Buoni contro Cattivi, Bene contro Male. Questo dualismo, che può funzionare se si prende in considerazione il problema del «Male» nella sua dimensione metafisica, cosmologica e sociale, è totalmente fallimentare quando si entra nei chimerici territori della metastoria e del cosiddetto «esoterismo». In altre parole, a che serve sapere se esistono o meno sette «poli» o sette luoghi dove le armate infernali esercitano il loro nefasto influsso sulla terra, quando il male è già «qui e ora», non solo nella quotidianità che mi circonda, ma anche in me, nelle profondità del mio io?
L’impostazione del libro, che fa del Pruneti un crociato del Bene, corre anche il rischio di avere sbocchi sgraditi. Inopportuno, mi sembra, il ribadire l’etnia yezidica come una stirpe di «adoratori del diavolo», in un presente in cui la stessa è stata, per i medesimi assurdi motivi, oggetto di un vero e proprio massacro, un genocidio che non andrebbe passato sotto silenzio. Il Pruneti riporta molte citazioni dall’epistolario di Guènon, a p. 62 leggiamo che lo stesso «sospettava che l’Aga-Khan fosse “un agente importante della contro-iniziazione” e che il gruppo di cui era a capo servisse “apparentemente da copertura a una delle sette torri del diavolo”» (i corsivi sono dell’autore), affermazione abbastanza logica se pensiamo che Guénon era un convertito di obbedienza sunnita, ovvia la demonizzazione della fazione avversa, quella sci’ita da cui deriva la fede dell’Aga Khan. L’Aga Khan e altre fazioni scismatiche derivano la loro devozione dall’imām Ja‛far aṣ-Ṣādiq, personaggio semidivino, a cui fanno riferimento gli Ismaeliti, che proprio dal di lui figlio Ismā‛īl prendono nome. Ad arricchire l’aura mitologica attorno al pensiero ismaelita, ha contribuito in modo determinante il retaggio dottrinale gnostico-iranico, segno distintivo di tale fazione eterodossa. Questa «gnosi islamica» è ancora ai giorni nostri rappresentata da piccole comunità diffuse prevalentemente nell’Asia centrale, nello Yemen del nord, lungo le coste orientali dell’Africa e quelle occidentali dell’India, in particolare è ricordata per essere appunto la religione dell’Aga Khan. Ma, ovviamente, per il Pruneti gli «gnostici», islamici o meno, sono tutti adoratori del diavolo.
Come segnala sempre il Pruneti, l’argomento delle «sette torri del diavolo» è stato oggetto di interesse mediatico da parte di P. Buttafuoco in un articolo apparso su La Repubblica del 16 aprile 2014. Il noto giornalista ha delineato il problema con verve certamente ispirata, giungendo a cogliere uno dei siti maledetti, negli spazi che ospitano vasti giacimenti petroliferi (p. 99); che si tratti di Mesopotamia – luogo in cui sono precipitati gli angeli decaduti – oppure del Turkmenistan, il combustibile che da essi sprigiona è – secondo Buttafuoco – una energia infera «la cui fuoriuscita è sempre accompagnata da tanfo», un «liquame di putrefazione delle viscere della terra, perché il male, infine, pur contenuto da una muraglia che fa argine alle orde e, al contempo, reintegra l’ordine contro ogni degradazione dell’umano, è ineliminabile». Nel nostro piccolo vorremmo far notare al noto giornalista che, però, è grazie a tale orrido e infero liquame che possiamo lavarci, vestirci e abitare il mondo in un modo un po’ diverso da quello di rudi beduini che usano la sabbia per i servizi igienici.
Di passaggio, vorrei segnalare che una delle prime menzioni – se non la prima in assoluto – di una proto-raffineria di petrolio sta in un testo eresiologico, la «Confutazione di tutte le eresie» di Ippolito di Roma (m. nel 235 d.C.), ed era situata nei pressi del fiume Tigri, in Bassa Mesopotamia4. I modi della odierna distillazione frazionata erano anticipati in una rudimentale colonna di rettifica attraverso la quale si separavano i tre principali componenti del petrolio (residuo secco, bitume, olio combustibile), e diventavano immagine della separazione che lo gnostico doveva operare in sé separando materia, anima, e pneuma.
Il puzzle assemblato dal Pruneti rivela certamente un sapore arcano, ma appare totalmente inconsistente nel metodo; certamente più adatto alle pagine fumettistiche di un Martin Mystére o di un Dylan Dog, che non a un episodio di storia culturale. Sicuramente l’autore non amerà le cose che dico, ma la scrittura e lo scrivere di argomenti o «cose» che si ritengono «importanti», oppure ai quali si è affettivamente legati, dovrebbe passare al vaglio delle emozioni e non trasformarsi in una caotica apologia di una qualsivoglia «tradizione».
Il culto diabolico di cui parla Guénon, seguito dal Pruneti, è forse la conseguenza di un fraintendimento tra libertà dell’individuo e arcaismi religiosi in cui è implicita una disciplina dei luoghi, ritenuti coagulo e sede di forze avverse, planetarie. È probabile che dietro alle affabulazioni «magiche» e anti-iniziatiche si celino motivi mitologici uniti a insoddisfazioni «umane». Le analisi acritiche del fondatore del tradizionalismo moderno hanno di fatto «stregato» numerosi e quotati studiosi, non solo di islamistica; forse sarà anche questo un «segno dei tempi» che in qualche modo è servito a svecchiare l’aridità degli studi filologici.
Ezio Albrile
1 Cfr. R. Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, a cura di R. Maridort, trad. it. di L. Pellizzi (Piccola Biblioteca Adelphi 320), Adelphi, Milano 1993.
2 Il concetto di «controiniziazione» o «controtradizione» è cruciale nel pensiero guénonianio (cfr. R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano 1982, passim) e nel corso del tempo sarà alla base di ermeneutiche a volte deliranti.
3 Recensione di W.B. Seabrook, «Aventures en Arabie» (Gallimard, Paris 1934), in Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico, pp. 121-122 (pubblicata originariamente in Études Traditionnelles, 1935, pp. 42-43).
4 Hipp. Ref. 5, 21, 10-12.