Il Salone di questo anno nasceva nel segno del Trentennale ed al contempo del passaggio di un punto critico della sua esistenza. Vale a dire: cosa sarebbe successo dopo la separazione da Torino delle più grandi case editrici: Mondadori con tutti i marchi controllati (fra i quali spicca Einaudi), il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol (Bollati Boringhieri, Garzanti, Longanesi ecc. ecc.), Adelphi? Cosa sarebbe successo dopo il “doppione” di Rho dell’aprile scorso? Qualcosa sicuramente è successo. I vuoti dei grandi editori si sono notati, ma sono stati ricoperti da una miriade di tanti piccoli editori (molti di più delle passate edizioni), da librai indipendenti che hanno fatto squadra, da università, biblioteche, enti pubblici. E il pubblico è aumentato. Sembra da 140 mila a 160 mila presenze. Purtroppo tre quarti provenienti dal Piemonte. Che è il dato che il Salone si porta dietro da sempre ed è sempre stato il suo limite. Nonostante ciò il Salone resta uno degli avvenimenti culturali più importanti e meglio organizzati della nostra Italia da trenta anni a questa parte.
Da aggiungere tra le infinite proposte compendiate nelle circa 200 pagine del catalogo una amichevole attenzione per il pubblico da parte del giovane staff scientifico che ha curato le sezioni del Salone (una ventina tra sezioni tematiche e progetti speciali). Ricorderemo a tal proposito come emblematiche la Piazza dei Lettori e la Biblioteca del Salone.
Vorrei iniziare con lo spazio occupato dai ragazzi dell’Università di Torino che potevi ammirare operosi come piccole formiche con le loro magliette nere della Università fin dal primo mattino intorno ai progetti speciali e ai loro professori. Da attempato ortolano dilettante mi ha colpito l’installazione di una coltivazione di lattuga fatta con mezzi poveri e alta tecnologia. Non sapevi se essere colpito più dalla semplicità del progetto, dal vivo colore verde delle piantine, dall’esser tutto questo contornato da tubi innocenti, fili elettrici, scaffalature in legno in attesa di ospitare meravigliose biblioteche.
L’edizione 2017 del Salone ha finalmente avuto tra i suoi protagonisti la Regione Toscana, regione ospite appunto. Negli scorsi anni inutilmente si poteva cercare traccia della nostra Regione, denotando un chiaro sintomo della decadenza di una delle fucine culturali più importanti del secondo dopoguerra italiano. Si sa: la Firenze delle grandi case editrici (Sansoni, Vallecchi, Le Monnier) non esiste più. Così come non hanno avuto eredi i grandi luminari della Università di Firenze (Cantimori, Sestan, Garin, Contini). Come in altro campo (quello religioso) Luigi Rosadoni, Lorenzo Milani, Bruno Borghi, Giovanni Vannucci…
Ma proprio partendo da don Milani lo Spazio Toscana del Salone 2017, complice l’anniversario dei 50 anni dalla morte e l’uscita di un importante doppio meridiano che ne pubblica tutte le opere, ha cercato di fare i conti con i grandi intellettuali della sua storia recente. L’incontro su don Milani, coordinato da Mario Lancisi, ha dato voce a Giannozzo Pucci, il quale ha condiviso con il Priore di Barbiana l’amore per la terra e il libero insegnamento; Valeria Milani Comparetti, nipote di Lorenzo, custode delle memorie del nostro da cucciolo; Sandra Gesualdi, figlia di Michele, l’allievo della scuola di Barbiana che più di tutti ha cercato di conservarne la memoria e salvaguardarne il magistero.
Ma don Lorenzo Milani è stato uno dei protagonisti indiscussi del Salone anche fuori dallo Spazio Toscana. Infatti Massimo Bray, presidente del Salone ha aperto l’incontro di presentazione ufficiale dei due meridiani sopra ricordati.
Pontefice massimo dell’incontro Alberto Melloni, curatore principale dell’opera, cui sono seguiti gli interventi dei curatori Sergio Tanzarella (un lavoro di appassionato certosino sulle lettere) e Federico Ruozzi (un professorale lavoro di filologo sulle altre opere). Non meno forti e appassionate le testimonianze di Carlo Ossola (un inquadramento della complessità della figura intellettuale di Lorenzo Milani sia nel contesto italiano che quello europeo) e di Enzo Bianchi, il quale non si è limitato a tratteggiare i punti di grandezza del lavoro del parroco di Barbiana, ma anche le criticità (la distanza da figure come quelle di Dossetti e del Card. Martini nonché la sostanziale incomprensione della novità del Concilio.
Il mio personale vagabondaggio fra gli stand del Salone ha spesso trovato quiete allontanandomi dal frastuono dei mille incontri e dalle migliaia di visitatori sciamanti, in importanti e appartati (si fa per dire) incontri. Due fra tutti: la presentazione dell’ultimo romanzo dello scrittore russo Zachar Prilepin Il monastero fatta magistralmente e con la consueta verve da Alessandro Barbero. Ove si racconta come in certi luoghi e in certi spazi il tempo si sia fermato e gli uomini, le donne, le istituzioni continuano a ripetere fino alla noia gli stessi tragici misfatti. Ove inoltre si è potuto constatare de visu la grande passione di traduttori e editori per rendere traducibile un capolavoro di un autore che fa della fusione dei linguaggi una delle caratteristiche precipue del proprio stile.
E infine Serena Vitale. Se Prilepin ci raccontava di un monastero trasformato in lager nelle famigerate isole Sorokin, Serena Vitale ci ha raccontato di un intero quasi continente trasformato in un mattatoio le cui vittime predilette erano i poeti. L’URSS di Stalin che ha scientemente “stritolato” i suoi poeti. Serena ne ha elencati con sicurezza dodici (forse tredici) a partire da Majakovskij per giungere alla Achmatova. Ma poi via via che l’incontro continuava altri nomi affioravano nella sua memoria di grandissima studiosa dello spirito russo. Un vero e proprio monumento per poeti e scrittori di cui si sono perse le tracce o si leggono i versi dimenticando spesso il contesto nel quale sono stati concepiti. E Serena Vitale è lì a ricordarcelo. E per un Salone del Libro è un merito di non poco conto.
Giuseppe Picone – San Gimignano, 27 maggio 2017