SABRINA MEZZAQUI. Autobiografia del rosso
Che cosa è una autobiografia? È la scrittura (γραφή) di sé (αὐτός: in questo caso andrebbe meglio il femminile αὐτή). È scrittura, indagine, storia della propria vita (βίος). Una sorta di compte rendu che ad un certo punto si fa per sé e/o per gli altri.
Sabrina Mezzaqui nella sua opera/installazione apparentemente fa altro. Su una sorta di tavolinetto da studio/cornice, di autobiografie ne colloca addirittura 33 (assolutamente un numero non casuale) da “Autoritratto nello studio” di Giorgio Agamben (Nottetempo, 2017) ai “Due diari” di Unica Zürn (L’Obliquo, 2008). Sono libri che provengono dalla biblioteca dell’artista: la maggior parte sistemati sul tavolinetto di taglio in verticale come se fossero su un palchetto di una libreria (se abbiamo contato bene sono 17); altri tre di lato al simil palchetto; un altro ancora discosto sempre di taglio: una sorta di pietra angolare; altri tre aperti sul tavolinetto. Questi ultimi, contrariamente agli altri, ben individuabili: al centro “La misura dei miei giorni” di Florida Scott-Maxwell (1883-1979) psicoanalista junghiana, ai lati il diario di Christa Wolf e i “Quaderni – Volume primo” di Paul Valery. I libri sono foderati con carte colorate (il rosso naturalmente è dominante) che ci restituiscono una fantasmagoria geometrica da sempre uno dei tratti distintivi dell’arte di Sabrina Mezzaqui. Anche i segnalibro e altre piccole carte sparse qua e là sul tavolinetto obbediscono allo stesso stile. Dal tavolino si apre un cassetto diviso in due comparti: da una parte su un ampio foglio bianco sono riportati autore, titolo e riferimenti editoriali delle 33 opere, dall’altra piccole carte ritagliate e colorate di prevalente color rosso.
Questo è il materiale “duro”, fisico della installazione.
Dentro c’è l’anima (vogliamo chiamarla così?) della nostra artista. C’è la sua autobiografia intellettuale e spirituale. Dalle “Confessioni” di Sant’Agostino (354-430), vale a dire la storia della più famosa conversione al cristianesimo (opera datata 398) a “Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera (1956-2016), il diario di un congedo dalla vita che si trasforma in un inno alla vita e uno sprone per tutti noi al raggiungimento della sua pienezza. Nel mezzo ci sono tutte le altre storie. Ma c’ è soprattutto la testa e l’anima della nostra artista. Un invito a fare uno scavo e chissà se da un braccio che affiori dalla sabbia di uno sperduto fondale marino non balzi fuori una nuova Venere. L’artista sembra dircelo: perché non tuffarsi? Intanto il nostro occhio è estasiato dai colori che emergono nella penombra, il nostro spirito dalla sacralità che promana dal tutto. E se poi si fa qualche passo e gettiamo lo sguardo dalla finestra della stanza che ospita l’installazione (ma che è parte integrante della stessa con i suoi muri scrostati che la fanno assomigliare più ad una soffitta che ad una sala di esposizione), se gettiamo lo sguardo fuori dalla finestra scorgiamo dall’alto nella sua incantevole bellezza Piazza della Cisterna di San Gimignano. Allora il senso di vertigine si completa. Soprattutto se è una avanzata sera decembrina ed una appena percettibile nebbia offusca le luminarie natalizie.
Altre sono le stanze e le opere che completano la mostra. Tutte degne di uno sguardo accurato e solidale. Lo spazio non ce lo consente. Ma di una non possiamo fare a meno di parlare. È l’ultima stanza sulla sinistra. Un grande albero-torre la popola, fatto di 500 fiori di carta. I fiori disegnati in modo maniacale dalla madre dell’artista sono stati rielaborati su un tavolo di lavoro dalla stessa con un gruppo di amiche, lavoro svolto durante l’arco dell’ultimo anno. Dalla bellezza sprigionata dall’inattesa visione si può senza tema di esagerazione affermare che ancora una volta Dioniso si è unito e fuso con Apollo.
San Gimignano, 4 gennaio 2018
Giuseppe Picone
Albero
Autobiografia
Piazza della Cisterna (San Gimignano)