La religione oltre le religioni: per solennizzare i 25 anni della nostra International Summer School (1994-2018)
Per sottolineare il significato di questa esperienza ultraventennale, la International Summer School on Religion (nel suo venticinquesimo anniversario) ha ritenuto di scegliere, per il 2018, un tema che va al cuore del fatto religioso: La religione oltre le religioni.
La nostra scelta implica e travalica tematiche significative all’interno del Die Religionswissenschaften. Una di queste riguarda i paradigmi connessi alla secolarizzazione, l’altra attiene al ruolo svolto nel nostro tempo dalle religioni intese come istituzioni storico-culturali. Su queste due tematiche mi soffermerò, nell’intento di vedere al di là, di andare oltre.
1. Oltre la secolarizzazione
Il riferimento va immediatamente a uno studioso scomparso di recente, Peter Berger. I suoi studi si sono a lungo fondati sulla teoria della secolarizzazione ma poi, alla vigilia del nuovo millennio, il professore si è accorto che qualcosa non andava. «La secolarizzazione partiva dal presupposto che a più modernità corrispondesse meno religione. Ma questo non è vero», spiega riferendosi al processo di revisione testimoniato da I molti altari della modernità (Emi, 2017), un libro che si sofferma sul destino delle “religioni al tempo del pluralismo” nel tentativo di individuare un nuovo paradigma interpretativo. «La mia è una proposta – dice –, adesso c’è bisogno che altri contribuiscano a svilupparla».
Se il postulato della cosiddetta “età secolare” si è rivelato fallace, nondimeno è innegabile l’esistenza di un “discorso secolare”, che si esprime nel pluralismo e, in modo ancora più articolato, nella varietà di registri e convinzioni con la quale ciascuno di noi si confronta nell’esperienza quotidiana.
«Il fenomeno è duplice – osserva Berger – e agisce su due livelli diversi. Il primo è di natura individuale: ognuno di noi si trova nella necessità di operare un negoziato continuo tra credenze e informazioni anche discordanti. La seconda istanza, invece, riguarda la dimensione pubblica, istituzionale. I rapporti fra lo Stato e le varie confessioni sono sempre più complessi e nello stesso tempo irrinunciabili. Per affrontare processi epocali come quello delle migrazioni, abbiamo bisogno di un paradigma che tenga conto di entrambi gli aspetti. Quando considero quello che sta avvenendo in molti Paesi d’Europa, Italia compresa, mi pare che l’integrazione sia una meta accessibile. A patto che si riconosca la straordinaria esperienza di libertà e di umanità che nelle migrazioni si manifesta, è chiaro».
Eppure la tentazione di costruire muri e barriere è sempre più forte (come confermano le recenti prese di posizioni italiane, europee, statunitensi). «Il movimento dei migranti – continua Berger – è comunque inarrestabile. Anche chi non vuole convincersene deve interrogarsi su quale sia l’alternativa. Abbiamo paura che l’altro metta in pericolo le nostre convinzioni? Ma in che cosa consistono le nostre convinzioni? Il relativismo nichilista non può essere una risposta al fondamentalismo. La posta in gioco è un’altra… La dinamica che sto cercando di descrivere può mettersi in atto solo se le persone sono lasciate libere di professare la propria fede senza costrizioni né condizionamenti di sorta. Anche da questo punto di vista, il percorso compiuto dalla Chiesa cattolica rappresenta un precedente di estremo interesse. In meno di un secolo si è passati da una concezione che escludeva qualsiasi compromesso con il mondo contemporaneo alle aperture del Concilio Vaticano II, le cui dichiarazioni in materia di dignità umana e libertà religiosa rappresentano oggi un caposaldo del pluralismo».
«Non azzardo previsioni – precisa Berger –, ma è indubbio che, fra tutti i negoziati in corso, quello con i musulmani sia il più urgente e delicato. Sul piano delle idee si notano già progressi apprezzabili: un islam meno tradizionalista e più democratico è un obiettivo condiviso da diversi intellettuali, che premono anche per un maggior dialogo interreligioso. Sul campo, purtroppo, la situazione non è altrettanto incoraggiante e non vedo come la minaccia del Daesh possa essere sconfitta se non con un intervento militare. Più in generale, per quanto riguarda l’integrazione dei musulmani nei Paesi occidentali, il criterio da adottare dovrebbe essere quello del pronto soccorso. Codice verde per i comportamenti che, già adesso, sono perfettamente compatibili con la convivenza democratica, e codice rosso per le pratiche che, al contrario, non possono essere assolutamente tollerate e anzi vanno perseguite penalmente: la mutilazione genitale femminile, il fanatismo violento eccetera. Tra un estremo e l’altro c’è il codice giallo, che è il territorio del negoziato. Mettiamo che in una scuola le famiglie musulmane chiedano il rispetto della separazione tra maschi e femmine durante gli eventi sportivi. Andare allo scontro, magari imponendo la promiscuità, non produrrebbe alcun beneficio. Siamo in codice giallo, possiamo e dobbiamo discuterne. È un modo, tra l’altro, per sostenere e diffondere il pluralismo».
Occorre ricordare che siamo in una società “ospedale da campo”, se vogliamo tener ferma la consapevolezza del pluralismo esistente di fatto…
1.1. Sui tentacoli sovranisti
In un tempo di pluralismo, ben al di là di taluni aspetti che si rifanno soprattutto al sovranismo intollerante e nonostante una sorta di assuefazione ai gesti che trasformano l’attività di governo, come nel caso italiano, in una dittatura della maggioranza, è doveroso ricordare che non è lecito sovvertire il principio secondo cui ogni maggioranza deve comunque sottostare alla Costituzione e non viceversa.
All’articolo 2, infatti, si ricorda che la Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; all’articolo 16, il diritto di ogni cittadino a circolare e soggiornare liberamente in tutto il territorio nazionale. Qualsiasi forma di discriminazione, fondata su sesso, razza, colore della pelle od origine etnica e sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione, è vietata.
2. Oltre le religioni, la spiritualità
“Per sempre” è la spiritualità, intesa come dimensione profonda costitutiva dell’essere umano, non la religione, che ne costituisce la forma socio-culturale concreta, storica e dunque contingente e mutevole.
La tesi degli autori del libro Oltre le religioni (Gabrielli Editori, 2016) – John Shelby Spong, María López Vigil, Roger Lenaers e José María Vigil, quattro tra i nomi più prestigiosi, brillanti e amati della nuova teologia di frontiera – è che le religioni, così come le conosciamo, siano destinate a lasciare spazio a qualcosa di nuovo e non ancora facilmente prevedibile, ma sicuramente aprendo all’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano un futuro ricco di straordinarie possibilità. C’è insomma – dicono gli autori del libro – tutto un mondo nuovo che cerca di nascere e che preme per venire alla luce.
«Questo libro riveste significato e importanza tanto per persone e comunità inserite nella Chiesa quanto per chi si sente in ricerca, senza appartenere ad alcuna istituzione religiosa. Tanto per i cristiani o i fedeli di altre tradizioni quanto per chi vive una ricerca indipendente. La spiritualità post-religiosa si pone nel cammino di dialogo con l’umanità in un linguaggio contemporaneo. I cristiani vivranno la loro fede cristiana, ma sentendo la necessità di esprimerla in una maniera nuova, meno legata alle antiche culture rurali nelle quali il cristianesimo si è sviluppato. La proposta non teista, elaborata in questo libro dal vescovo Spong, riscatta in modo nuovo l’antica teologia apofatica delle Chiese orientali e la spiritualità ebraica sull’impronunciabilità del nome divino. Lo sforzo di esprimere la fede in accordo con le culture attuali permetterà di vivere in maniera più profonda la proposta di papa Francesco di una “Chiesa in uscita”».
Nell’Italia di alcuni anni fa, non sono mancate figure che hanno cercato, ciascuna a suo modo e a partire dalla propria funzione, di rispondere a queste sfide. «Senza dubbio, negli ambienti evangelici e di altre religioni, altre voci profetiche hanno risuonato negli stessi termini. È responsabilità nostra portare avanti questo cammino e avere il coraggio di muovere nuovi passi adeguati ai nostri giorni. Questo libro Oltre le religioni può essere un ottimo strumento in questo percorso».
2.1. La grande lezione di Etty Hillesum, la ragazza che non sapeva inginocchiarsi
La vita di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz nel 1943, è diventata emblema del cammino di una donna che oltre tutti i fili spinati, interiori ed esteriori, ha voluto “pensare con il cuore”, alla ricerca di una sorgente molto profonda, il divino che è in noi, da riscoprire e liberare. Partendo da un proprio percorso di autoanalisi e di indagine spirituale, Etty Hillesum scelse di confrontarsi con il dolore proprio e altrui, facendosi testimone delle miserie e delle ricchezze dell’esperienza del campo di concentramento. Si tratta di una scelta di resistenza esistenziale di fronte agli orrori del suo tempo, oltre l’odio, alla ricerca di un senso “altro” di sé e della relazione con gli altri.
Così scriveva una domenica mattina del 1942, mentre fuori infuriava la persecuzione nazista:
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: […] tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, pp. 169-170).
Chi era Etty Hillesum?
Etty (Esther) Hillesum era nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg (Paesi Bassi) da famiglia ebrea, figlia di un insegnante di lingue classiche e di una russa scampata ai pogrom. Laureata in giurisprudenza e iscrittasi poi alla facoltà di lingue slave, coltivò la passione per la lettura e gli studi di filosofia e psicologia. Ad Amsterdam, in cui passò la maggior parte della sua vita, insegnò russo e condusse un’intensa vita relazionale, vissuta comunque come arricchimento e ulteriore stimolo di una intensissima vita interiore. Di quest’ultima sono testimonianza i diari (dal marzo 1941 al settembre 1943) e le lettere scritte agli amici, in gran parte da Westerbork, campo di smistamento e anticamera per Auschwitz, situato al confine tra i Paesi Bassi e la Germania, dove Etty si trovò come prigioniera dal giugno del ’43 (dopo avervi lavorato con possibilità di allontanamento e quindi di fuga, occasione da lei sempre rifiutata). Il 7 settembre 1943 si trovò anche lei, come tutti, sul treno merci per Auschwitz, assieme ai genitori e a uno dei due fratelli. Da una informazione della Croce Rossa risulta che Etty morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943, all’età di ventinove anni.
Il punto di partenza di Etty è quello di una donna fragile, inquieta, instabile affettivamente. Depressione, paura e repulsione marcano l’umanità di questa donna all’inizio della sua autotestimonianza. Una donna che ha avuto un’intensa vita sentimentale e una altrettanto intensa vita spirituale, una donna che cercò con molta difficoltà di trovare un equilibrio tra la sua sete spirituale, di leggere, di conoscere, di scrivere, di esprimersi, di pregare e il suo desiderio di vivere un rapporto d’amore con un uomo. Nei suoi scritti troviamo una profonda capacità introspettiva e una ricerca acuta, piena di alti e bassi, con intuizioni profonde e ingenuità, con rabbie, delusioni, angosce e scoppi di ottimismo: stati d’animo, questi, e sentimenti propri di ogni individuo sensibile alla ricerca di identità.
L’itinerario interiore di Etty Hillesum si svolse contemporaneamente ai fatti storici esterni che andarono coinvolgendo in maniera sempre più drammatica la gente ebrea: questo dramma la sollecitò fortemente alla ricerca di un atteggiamento da tenere sia di fronte alla propria storia personale che alla “grande” Storia, l’abisso di assurdità e ingiustizia che si compiva sotto gli occhi di quella generazione di ebrei.
Etty chiede di essere un “cuore pensante”, si pone in ascolto di se stessa, si fortifica sempre più in benevolenza e fiducia verso la vita mentre all’esterno la situazione storica precipita in orrore, così che, verso il termine del suo itinerario interiore, quella vitalità inquieta e sofferente si è come illuminata e pacificata, saldata attorno a un ancoraggio interiore: Dio.
Etty non invoca consapevolmente il Dio di una particolare tradizione religiosa; il “suo” Dio è, semplicemente e immediatamente, il Dio che ciascuno porta al fondo della propria anima. Ciò che allora riappare è semplicemente l’uomo che custodisce Dio nel segreto, un Dio che “va salvato” proprio perché lo si tiene nell’intimo del proprio cuore.
C’è dunque una parte della creatura più profonda e intangibile, una parte divina, che patisce senza subire violenza, che è Dio in noi.
Dentro di me c’è una sorgente molto profonda – scrive Etty – e in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
La vita di Etty, la sua reazione al dolore di fronte alla morte, il suo grande amore a oltranza per la vita, appaiono così come la manifestazione della profezia di Isaia (58,11): «Sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono».
In un luogo e in un momento storico in cui tutto proclamava e anzi urlava la morte di Dio e dell’uomo, Etty intuisce l’intimo legame tra le sorti dell’uno e quelle dell’altro, riscopre in se stessa la verità dell’uomo come luogo in cui sopravvive la presenza di Dio, e si dà il compito di custodire, preservare, più che la propria vita fisica, il proprio nucleo interiore più profondo, un piccolo pezzo di Dio in noi stessi, con un’intuizione di verità profondissima, che ritrova Dio per una strada altra, personale e universale insieme, l’uomo come solo tempio possibile di un Dio vivente.
E a Dio scrive: «Discorrerò con te molto spesso e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi». Etty tiene vivo Dio in sé come relazione da alimentare, e parla con lui come ad una persona diventata importante, qualcuno che non si vuole più lasciare andare. Parla a Dio come a un qualcuno la cui permanenza nella nostra vita è più importante delle proiezioni e delle attese che possiamo avergli costruito attorno. Lei fa un’operazione di “ritiro delle proiezioni” con tutti gli attori più importanti della sua scena esistenziale: il suo uomo, il suo nemico, il suo Dio.
In questo modo diventa capace di relazioni libere e liberanti con tutti, anche con Dio, da cui arriva a non pretendere niente, nemmeno che sia Dio, con tutte le immagini e le implicazioni di potenza che caricano questo nome. Etty manifesta questa idea commovente, originale, profondamente umana: trattenere Dio presso di sé col dialogo, con l’attenzione, con la cura di una relazione: «Discorrerò con te»; parlerò io nel tuo silenzio e farò essere la relazione anche nell’assenza, nell’apparente assenza di te. Vorrò crederci, e, credendoci, ti farò essere; parlando con te renderò viva e operante la tua presenza invisibile, seppellita e silente nel cuore dell’uomo.[1]
Verso Dio, come verso la vita, Etty mantiene un atteggiamento di apertura e di disponibilità le cui perturbazioni non mette mai sul conto di Dio ma, con grande dignità e libertà e responsabilità, ascrive al proprio limite umano. Etty “scagiona Dio” e lo considera la prima vittima dell’odio e della violenza che infieriscono attorno, per lei il “Dio lontano”, che spesso appare sordo e indifferente alle drammatiche situazioni della nostra vita, è un Dio “prossimo”, come nella vicenda evangelica del Buon Samaritano (Lc 10,25-37).
Etty invoca un organo oltre la ragione per “capire una realtà sconcertante”; organi – dice – che crediamo di non conoscere, o che non abbiamo mai avuto modo di scoprire, e che invece sono dentro di noi. Il dolore, la morte, la sventura, la crudeltà, la persecuzione: in una parola, la sofferenza.
Ci sono dei “duri fatti” che dobbiamo irrevocabilmente affrontare; la nostra sfida è farli diventare fattori di crescita e di comprensione, oppure soccombere. Poiché è dai pozzi della nostra miseria e desolazione, è dalla trasformazione della sofferenza che ci accade personalmente che possiamo attingere “un senso nuovo”, da offrire a noi stessi ma anche agli altri.
“Non diventate apatici e insensibili”. In ognuno di voi – scrive Etty ai suoi colleghi del Consiglio ebraico di Amsterdam (uno strumento di apparente collaborazione con gli ebrei, creato dai nazisti) – esiste “una parte migliore”, come dice anche San Paolo: «Sono convinto che in ognuno di voi vi siano cose migliori». Etty scopre questa sorgente e ne fa il cuore del proprio essere; significa che pone la sua mente, qui intesa come ragione giudicante, nel cuore, in questo nuovo (o antico) centro del suo essere e si scopre ad attingere da lì i giudizi più profondi che dà sulla realtà: una realtà in cui c’erano fatti molto duri da sopportare – la persecuzione – e c’era un nemico.
E i giudizi che lei sceglie di dare non sono giudizi di condanna della vita, della malasorte, di Dio, e nemmeno dell’altro, il nemico. Dare giudizi col cuore, porre la mente nel cuore, non significa buonismo, perdonismo, così come non vuol dire chiudere gli occhi sul male, non distinguerlo dal bene; significa, per Etty, qualcosa che lei stessa non riesce a spiegare bene, a far intendere ai suoi amici, ai suoi interlocutori, a meno di non chiarirlo progressivamente a se stessa: significa avere uno sguardo dilatato – un cuore appunto dilatato – sulla vita, riuscire a ricomprendere in essa, e nella sua bellezza, anche il dolore come parte integrante. Agli occhi di Etty, il dolore non arriva a vanificare, a nascondere, a distruggere, la bellezza della vita.
Dal treno che la portava ad Auschwitz, Etty lanciò una cartolina postale, indirizzata a un’amica; qualcuno la raccolse dalla strada ferrata e la spedì. Vi si legge: «Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: Il Signore è il mio estremo rifugio. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. Abbiamo lasciato il campo cantando».
Questo “lasciare il campo cantando” di Etty, la sua cartolina all’amica, mi fa tanto pensare a una strofa di una bellissima canzone di R. Vecchioni, Sogna ragazzo sogna:
La vita è così grande
Che quando sarai sul punto di morire
Pianterai un ulivo
Convinto ancora di vederlo fiorire.
Il nostro viaggio quest’anno, e lo auguro a ciascuno sulla scia di Etty Hillesum, fra il gelsomino e la pozzanghera, può dunque cominciare.
Permettetemi, però, di rivolgere qualche saluto. Il primo va a Beatrice Jacopini, che mi ha offerto una particolare occasione: quella di trascorrere alcuni giorni in compagnia dell’affascinante Etty, grazie al suo suggestivo libro Il gelsomino e la pozzanghera, testi dal diario e dalle lettere di Etty Hillesum (Le Lettere, Firenze, 2018). Grazie, Beatrice, e grazie anche a don Sudati per il suo lavoro sul testo Oltre le religioni (citato sopra).
A tutti un cordiale benvenuto.
[1] La forte personalità che fa leva non su letture, ma su un perspicace sondaggio interiore riporta alla mente il grande saggio sull’idea di Verità di A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità (a cura di E. Zola, Rusconi, 1974), alla luce del quale possiamo intendere anche la portata filosofica dell’altra fondamentale opera florenskijana Le porte regali (a cura di E. Zola, 2a ristampa, Marsilio, 2018). Conosciamo veramente soltanto il vivente che amiamo e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità integra, eterna, luminosa si rivela soltanto quando, usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è amore.