Lettera aperta ad ASFeR
Egregio Direttore,
dopo molto rimuginare e confrontarci, ci siamo decisi a scrivere una lettera aperta sul tema di queste prossime elezioni politiche. L’innesco è stato l’articolo di Enzo Bianchi per la Repubblica del 5 settembre, intitolato “Quello slogan è una bestemmia” e riferito al motto “Dio, Patria e Famiglia”, trasposto pari pari dal fascismo e divenuto slogan elettorale per FdI. A detta della leader del partito, Giorgia Meloni, questo non è uno slogan politico, ma «il più bel manifesto d’amore che attraversa i secoli» e che «affonda le sue radici nel ‘pro Aris et Focis’ di Cicerone [‘in difesa degli altari e dei focolari’] che da sempre fondano la civiltà occidentale». Si dia il caso, però, che tale motto sia stato uno stereotipo identitario del Ventennio fascista (scritto addirittura sui muri di edifici italiani risalenti a quel periodo) e che queste tre parole così associate racchiudano un conservatorismo arcaico, pronto a rigettare tutto ciò che può essere “altro”: altre religioni, altri stili, altre scelte di vita.
La questione è indubitabilmente politica, ma contiene anche, come accennato sopra, importanti elementi che attengono alla religione, al suo utilizzo identitario, alla speculazione di nascondersi dietro ideali d’un passato svanito e non più proponibile, per veicolare contenuti regressivi, violenti, pericolosi, dietro una patente di moralità, giustizia, rettitudine.
Andiamo a votare con una legge elettorale non modificata dopo la drastica riduzione dei parlamentari, dunque con un amplificato effetto maggioritario, e con candidati imposti dai partiti...
Di fronte si trovano una destra unita solo per vincere i collegi uninominali ma divisa su tutti i temi importanti del governo della nazione, un centro e una sinistra divisi e contrapposti da molte smanie di protagonismo.
I commentatori, sulla base dei sondaggi, hanno già decretato la vittoria della destra, capeggiata da Fratelli d'Italia, la formazione più estrema, e guidata da Giorgia Meloni.
La novità di una donna candidata alla Presidenza del Consiglio, in un Paese che ancora sconta un grave ritardo nella parità di genere in politica e nelle istituzioni, sembra aver messo in ombra i contenuti politici che la Meloni propugna. L’appartenenza di genere, tuttavia, non è di per sé sufficiente a garantire una trasformazione delle forme, dei linguaggi e dei contenuti della politica.
«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana» è il biglietto da visita della Meloni. Presentandosi con queste credenziali, la leader rivendica sì la propria femminilità, ma poi sembra suggerire un unico (o comunque privilegiato) modo di essere donna: essere madre (ma chi non lo diventa, per scelta o impossibilità, è forse meno donna?), essere italiana (come se la nazionalità la si scegliesse e potessimo decidere le proprie origini), essere cristiana (e chi appartiene a un’altra fede ha forse minore dignità?).
Basterà poi ascoltare il breve video del comizio tenuto in spagnolo nel giugno scorso sul palco di Vox, il partito spagnolo di estrema destra suo alleato in Europa, per aver chiari gli altri pilastri della sua agenda sociale e morale. Di fronte a una platea osannante, la Meloni ha deciso di giocare a carte scoperte, sciorinando uno dopo l’altro a gran voce, e in un crescendo emotivo di esaltazione quasi delirante, i punti salienti del suo credo politico-culturale.
A distanza di un mese ha dichiarato che con Vox ha sbagliato i toni (solo quelli?). Pertanto, attraverso un video in tre lingue rivolto alla stampa estera, ha cercato di rassicurare i partner internazionali sulle sue intenzioni con alcuni pacati interventi in cui ha voluto assomigliare ai conservatori britannici e ha promesso di rimanere nel solco delle tradizionali scelte atlantiche ed europee, accreditandosi come leader moderata. Ha detto che «la destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche». E in un’intervista al settimanale britannico The Spectator ha specificato: «La fiamma nel simbolo di Fratelli d’Italia non ha niente a che fare con il fascismo, ma è il riconoscimento del viaggio fatto dalla destra democratica attraverso la storia della nostra Repubblica. E noi ne siamo orgogliosi».
Così la fiamma ha continuato a campeggiare nel simbolo del suo partito malgrado alcune voci (in primis quella di Liliana Segre) si fossero alzate per chiederle espressamente di passare dalle parole ai fatti eliminando quel simbolo. Ma se la Meloni tiene a dichiararsi esplicitamente postfascista, altrettanto non può dirsi per gruppi di militanti o simpatizzanti del suo partito che, anche pubblicamente, si richiamano ed esibiscono simboli dell’ideologia del Ventennio (malgrado il reato di apologia del fascismo introdotto dalla legge Scelba del 1952). Il timore, neanche tanto velato (come frequenti episodi di cronaca stanno a confermare), è che la progressiva crescita di consensi per FdI e la sua leader, fino all’eventuale scalata a Palazzo Chigi, porti a uno sdoganamento implicito di tali comportamenti quale “concessione” a una fetta dell’elettorato di estrema destra.
Intanto Giorgia Meloni è tornata a proporre (al di là della reale praticabilità della proposta) il blocco navale per fermare i migranti che partono dal nord Africa, perché «uno Stato serio controlla e difende i propri confini».
E non si è fatta scrupolo, pur essendo donna, di condividere sui social il video della donna ucraina violentata per strada a Piacenza, enfatizzando non tanto l’episodio tragico dell’abuso (cioè una violenza di genere), quanto piuttosto il fatto che sia stato commesso da un giovane richiedente asilo. Il dramma personale di una donna, quindi, strumentalizzato a fini elettoralistici da un’altra donna. È questa la solidarietà di genere?
Più o meno in contemporanea, ha pubblicato sul proprio canale ufficiale di Facebook un video in cui illustra come «crescere nuove generazioni di italiani sani e determinati» incrementando lo sport, per combattere le “devianze giovanili” di cui molti ragazzi e ragazze sarebbero vittime, ovvero “droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori”.
Un unico termine, “devianze”, di ambito sociologico, usato per includere, insieme a comportamenti violenti, condizioni che rientrano invece nell’ambito patologico e che richiedono quindi cure specifiche, strutture e terapie adatte. È inoltre la stessa espressione “nuove generazioni di italiani sani e determinati” a risultare inquietante, nel suo evocare suggestioni che rimandano alla “difesa della razza”, matrice delle più efferate atrocità del ’900. E se il termine “devianza” venisse poi assunto in un’accezione più generale per indicare tutto ciò che va contro le norme socialmente accettate e che suscita disapprovazione?
Ma ecco di nuovo la ragazza proiettata verso Palazzo Chigi lanciare segnali rassicuranti alla platea di banchieri e imprenditori di Cernobbio, che però sono scettici sulla futura squadra di governo e sul rapporto con gli alleati. Sarà in grado la compagine governativa che uscirà dalle elezioni di gestire la difficile congiuntura economica e sociale che ci aspetta?
Insomma, questa statista double face che farà davvero, una volta conquistato il voto di chi ancora vorrà esprimersi, visto che l’astensione dovrebbe attestarsi oltre il 30%?
E come non vedere, inoltre, tutte le incognite di un appuntamento elettorale condizionato pesantemente dalla grave crisi economica, che può diventare il criterio determinante nell’orientamento degli elettori a scapito di altri fattori importanti per la vita dei cittadini (visione del mondo, diritti o anche la riforma costituzionale presidenzialista inserita nel programma comune della destra)?
Come sottovalutare, infine, il rischio della scelta del “nuovo per il nuovo” da parte di un elettorato ormai fluido, volatile? «Che succede agli italiani? Perché perdono la testa per clown, impostori, imbonitori, rottamatori, e ora per l’epigono dei fascisti? L’unica cosa positiva è che si disinnamorano rapidamente. In un Paese in cui a quanto pare tutti possono governare una volta ogni tanto», è il duro atto d’accusa del quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung.
Un giudizio velenoso, certo, sicuramente eccessivo. Ma siamo davvero sicuri che non fotografi obiettivamente la nostra volubilità e (per chi ci vede dall’estero) inaffidabilità politica, specialmente dopo la parentesi di un premier di sperimentata credibilità internazionale come Draghi?
Il futuro italiano si annuncia difficile, pieno di incognite, perché la destra rifugge l’orizzonte europeo come normale ambito in cui svolgere il ruolo del nostro Paese. C’è il rischio, inoltre, di regredire o di dover combattere per la difesa di diritti civili e libertà fondamentali. Anche per chi apprezza le fedi religiose, piuttosto che l’utilizzo della tradizione religiosa come puntello ideologico e identitario, si prospettano contrasti e problemi politici.
Che fare?
Intanto orientare il voto per scongiurare questi scenari, poi essere comunque vigili e attenti sui contenuti dell’azione politica governativa. Non è tempo di astensionismo, disaffezione politica, qualunquismo (anche se non mancherebbero mille valide ragioni). La posta in gioco, in questa fase storica del nostro Paese, è troppo alta.
Link nel testo
- Articolo di Enzo Bianchi, "Quello slogan è una bestemmia"
- Giorgia Meloni: video dell'intervento sul palco di Vox (in spagnolo)
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9 settembre 2022
Andrea Banchi
Anna Maria Franchi
Marisa Ignesti
Laura Sbarzagli